Storie di guide

Eroi sconosciuti: le guide del Brenta

Come ho già accennato in altri articoli di questa sezione, ho trascorso spesso periodi di vacanze estive a Molveno; anzi, posso dire che il mio battesimo al mondo dolomitico avvenne proprio, circa 25 anni fa, lungo i sentieri del circostante Gruppo di Brenta, tra tutti uno di quelli che più mi sono cari.
Si sa, ormai tutte le località di soggiorno alpino hanno perso la loro peculiarità originaria per trasformarsi in concentrazioni di alberghi in gara nell’offrire agli ospiti una sempre maggiore varietà di attrazioni, che talvolta c’entrano poco con il mondo della montagna snaturandolo ancora di più.
Una delle conseguenze è che delle tradizioni sono rimaste solo deboli tracce. Tra le cose che sono cambiate meno, colpisce quanto sia rimasto immutato il rapporto con l’aldilà, sdrammatizzato grazie alla presenza dei cimiteri a fianco della chiesa, quindi in centro paese; il fatto di conoscersi tutti, le tombe sempre ben curate, i fiori sempre freschi, durante le Feste addirittura un piccolo albero di Natale illuminato ai piedi di ciascuna lapide, finiscono per rendere meno pauroso anche il pensiero della morte.
Girando per i vialetti e leggendo le epigrafi del camposanto di Molveno, sì e no 1100 abitanti, si nota che sono sufficienti le dita delle mani per enumerare i cognomi degli abitanti. È ancora oggi una caratteristica di tutte le vallate, legata al fatto che fino a qualche decennio fa i nuclei familiari originari si muovevano di rado dall’ambito dei rispettivi paesi e altrettanto raramente vi si stabilivano famiglie provenienti da fuori. Ecco quindi che per fare l’appello del 95% della popolazione molvenese basta dire Bettega, Bonetti, Giordani, Sartori, Nicolussi, Zeni, Franchi, Donini; i nomi dicono poco ai forestieri, ma almeno quattro di quelle famiglie possono vantare alcuni dei protagonisti delle grandi imprese alpinistiche dell’ambito dolomitico nell’epoca eroica a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché rappresentanti della categoria, a volte misconosciuta e a torto sottovalutata, delle guide alpine.

Sia chiaro, ben pochi nascevano con la vocazione dell’alpinismo. Erano ben altre le urgenze di quei tempi per chi viveva nei villaggi montani: una vita quotidiana fatta di sacrifici che aveva come massima aspirazione la sopravvivenza, affidata a una misera agricoltura, a qualche capo di bestiame e alla caccia. Nel caso di Molveno, una provvidenziale risorsa in più, la pesca nel lago.
Proprio la conoscenza del territorio dovuta alla continua ricerca di pascoli freschi e di qualche preda in zone impervie fece la fortuna dei più energici, quando cioè la scoperta del mondo dolomitico diede il via all’arrivo dei primi viaggiatori e alpinisti stranieri, soprattutto tedeschi e inglesi; trattandosi per lo più di gente facoltosa, non badavano a spese nell’assoldare i valligiani, esperti loro malgrado di ogni aspetto dei monti, per farsi accompagnare alla conquista di questa o di quella cima o semplicemente alla scoperta delle bellezze montane. Era nato il mestiere di guida alpina, insperata fonte di guadagno, pur a fronte della convivenza con i pericoli e del rapporto con clienti a volte sprovveduti, inesperti o presuntuosi.
Guardando le sfocate fotografie in bianco e nero che illustrano i libri che continuo ad acquistare ogni volta che mi reco in Trentino o in Alto Adige, ci troviamo davanti pesanti giacche di panno, l’immancabile cappellaccio con la tesa, ancora le fasce al posto delle calze, l’ingombrante bastone ferrato, il pesante rotolo di corda a tracolla. Ancora di più ci viene da sorridere alla vista dell’abbigliamento dei clienti, compassati signori in panciotto, cravatta e bastone da passeggio e dame sussiegose con camicetta ricamata, busto, gonna fino ai piedi e ombrellino parasole.
La tipologia della guida alpina di fine Ottocento era quella di un uomo semplice di poche parole e molti fatti, spesso dotato di forza, agilità e resistenza fuori dal comune, grande generosità e spirito di sacrificio sotto un carattere talvolta burbero, profondo conoscitore della natura e degli uomini.
Ci siamo abituati a dare per scontati i capi di vestiario confortevoli, i materiali sofisticati, i cartelli e segnavia, le attrezzature supertecniche, la diffusione capillare di rifugi e bivacchi, gli impianti di risalita, le organizzazioni di soccorso efficienti, i telefonini, i navigatori satellitari. Eppure è passato poco più di un secolo da quando il fattore imprescindibile era l’uomo con il suo istinto e la sua esperienza. Nel nostro caso, la guida alpina più affidabile era quella in possesso, rubando un termine alla terminologia medica, della maggiore “capacità diagnostica”: capire cioè all’istante se il tempo stava per cambiare, se le condizioni ambientali suggerivano un itinerario alternativo, se la comitiva era in grado di affrontare senza rischi un’ascensione, se qualcuno doveva essere aiutato in un passaggio più impegnativo o, al contrario, tenesse atteggiamenti da sbruffone.

Sull’argomento esiste tutta un letteratura, spesso filtrata attraverso tradizioni orali e cronache da osteria, qualche volta romanzata e un po’ retorica, che ci fa conoscere questi personaggi concreti, magari non popolari al di fuori dell’ambito locale ma profondamente genuini. Dal momento che questa aneddotica è contenuta in libri ormai di difficile reperibilità, quali i tre bei volumi “Oltre il sentiero”, editi una trentina d’anni fa dalle edizioni Saturnia di Trento, raccomando a chi li scovasse, magari in qualche negozietto di paese o bancarella di usati, di non lasciarseli sfuggire.
A uso di chi, come è probabile, non riesca a trovarli, riferirò alcuni quadretti significativi, non di rado divertenti, che possano dare un’idea di quel mondo scomparso.
Così come quella dei Detassis, il cui più celebre rappresentante Bruno ci ha lasciato novantottenne nel 2008, parlare della famiglia Donini equivale a citare una componente del Brenta al pari delle cime, dei sentieri, dei ghiaioni, dei nevai e delle stesse pietre. Originari dei due opposti versanti della catena, Campiglio i primi, Molveno i secondi e legati da salda amicizia, hanno tutti scritto la storia di queste montagne: i Detassis con memorabili ascensioni e la costruzione della Via delle Bocchette, i Donini con lunghi periodi di dedizione alla gestione di rifugi. Celestino fu per decenni l’impersonificazione stessa del Pedrotti (oggi è la volta del figlio Fortunato), prima di diventarlo della Malga di Andalo, a regalare enormi dosi di esperienza e la sua ruvida bonarietà dapprima agli alpinisti e negli ultimi anni ai gitanti che con una passeggiata di un’ora raggiungono quel magnifico alpeggio. Nonostante sia scomparso ormai dal 1981, ancora oggi gli assidui frequentatori di Molveno hanno mantenuto l’abitudine di dire “Oggi andiamo su a farci una polenta dal Celestino?”.
Ma coloro che sono considerati i pionieri delle guide molvenesi furono i fratelli Matteo e Bonifacio Nicolussi. Anch’essi dapprima pastori di pecore al seguito del padre e poi cacciatori dalla mira infallibile, capaci di competere con le volpi in furbizia e con i camosci in agilità, diventarono guide tra le più affidabili: la loro fama si allargò presto oltre l’ambito locale, tanto che sempre nuovi clienti venivano per ingaggiarli a colpo sicuro senza discutere sul prezzo. Sono numerosi gli episodi che fanno capire quale caratterino dovessero avere: si dice ad esempio che, gelosi della loro perfetta conoscenza della montagna, distruggessero talvolta gli ometti di pietre di orientamento eretti dai concorrenti o che spesso decidessero loro dove portare le comitive, ripagandole però con conquiste sensazionali. Tra i clienti di Matteo ci fu nel 1882 anche Edward Theodor Compton, il famoso pittore inglese che con migliaia di quadri, schizzi e disegni fu il primo grande illustratore del mondo dolomitico.
Davvero un grosso personaggio (grosso in senso morale quanto fisico) fu Giuseppe Zeni, soprannominato “Beppaccia” proprio per la sua energia. Difficile immaginare una persona di maggiore generosità, morigeratezza, modestia e onestà; nessuno vide mai Zeni mettere piede in un’osteria, fatto ben raro in tempi in cui quello era l’unico diversivo di una vita dura. L’unica punta di orgoglio la mostrava per la croce di cavaliere ottenuta per meriti alpinistici, riconoscimento sacrosanto per una guida che ancora a settant’anni aveva compiuto un salvataggio durante una discesa dalla Cima Roma. Due aneddoti sono significativi per spiegare l’uomo: il giorno del suo matrimonio, subito dopo la cerimonia si mise in spalla una cucina economica di mezzo quintale e la portò al Rifugio Pedrotti; chi ha risalito quei 1600 metri con un semplice zainetto sa che non è uno scherzo, ma Beppaccia si era preso l’impegno e volle rispettarlo. Quando poi alla fine della Grande Guerra ritrovò la cassaforte abbandonata a Molveno dagli Austriaci in fuga, volle ad ogni costo restituirla intatta, tra le rimostranze dei compaesani e nonostante egli stesso avesse a suo tempo dovuto contribuire a un prestito forzoso di guerra.
Un’altra stirpe di eccellenti guide molvenesi è quella dei Giordani. Enrico, classe 1909, fu uno dei pochi esempi in cui la necessità di lavoro fu affiancata da una grande passione fin dall’infanzia. Già all’età di dieci anni si accodava di nascosto alle guide per impararne i segreti, a quattordici portava i viveri a spalla al Rifugio Pedrotti e a diciassette, accompagnato un cliente a vedere la Cima Tosa, “già che era lì” lo portò fino in vetta. Saputa la cosa, il padre, già con la mano alzata per mollargli una sberla, si fermò quando Enrico tirò dalla tasca le monete sonanti appena guadagnate. A diciannove anni ne fece un’altra delle sue, a dimostrazione di un carattere non meno tosto di un Nicolussi o di uno Zeni: dopo la sua prima ascensione al Campanile Basso insieme con Silvio Agostini, un compaesano insinuò che ce l’aveva fatta solo perché la grande guida lo aveva “tirato su” con la corda; senza scomodarsi a rispondere con parole alla provocazione, dopo appena una settimana accompagnò alla base del “Basso” lo scettico, lo legò a sè e con grande perizia lo portò in vetta.
Enrico si distinse in particolare per la capacità di infondere ai clienti, anche nelle situazioni difficili, un’assoluta sicurezza, dote essenziale anche nelle numerose operazioni di salvataggio alle quali partecipò. Gli accadde una volta di correre in soccorso di una comitiva tedesca bloccata in parete da un’improvvisa bufera di neve, dalla paura e dalla stanchezza: in condizioni proibitive, in particolare tagliando una corda che si era arrotolata intorno a una ragazza rischiando di soffocarla, riuscì a portare tutti in salvo al rifugio, dove si buttò subito a letto, anch’egli esausto. Al suo risveglio i tedeschi se n’erano già andati senza un saluto né un ringraziamento, lasciando solo pochi spiccioli sul tavolo. Non solo, dopo qualche tempo giunse una lettera di protesta del Club Alpino Germanico perché Giordani aveva distrutto una corda di loro proprietà!
A volte capitava anche questo: non sempre era ripagato con la stessa generosità chi metteva a rischio la propria vita per salvare quella altrui.

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