Stati Uniti: il mito dell'Ovest - Parte IV

San Francisco! Ha termine il grande viaggio nell’Ovest degli States.

Eccoci dunque all’atto finale di questo itinerario, che difficilmente potremo dimenticare, lungo le strade del leggendario Ovest americano. Gli ultimi dieci giorni ci riserveranno gli ennesimi cambiamenti di scenario: si alterneranno gli ambiti urbani, profondamente diversi ma in pari misura straordinari, di Las Vegas e San Francisco, e le attrattive naturali, emozionanti se pur di valenza diametralmente opposta, della Valle della Morte e di Yosemite. Tutto ciò senza trascurare il “collante” dell’attraversamento di piccole realtà meno magnificate ma per niente “minori” sul piano dell’esperienza del viaggio.
Proseguirà anche l’itinerario parallelo attraverso i “luoghi del cinema” e, quanto più ci addentreremo nella California, si faranno frequenti anche i riferimenti alla musica e alla letteratura americana.

Giovedì 6 giugno 2002
Riallacciamoci allora alla fine della Terza parte: lasciata al mattino Kanab, visitato il Parco Nazionale di Zion, usciti dallo Utah, percorso un pezzetto di Arizona e spremute ulteriormente le carte di credito (saremo ormai vicini al fondo…) nell’outlet di St.George, eravamo infine entrati nel Nevada, l’ottavo e ultimo degli Stati visitati, ormai prossimi a chiudere l’anello dove lo avevamo aperto il 20 maggio, vale a dire in California.
Dopo la frontiera, circa 120 km. di paesaggio via via sempre più desertico circondato in lontananza dalle aride catene delle Muddy e delle Spring Mountains, eccoci verso le 18 in vista di Las Vegas, ammantata da una foschia di caldo che già fa capire quello che ci dobbiamo aspettare nei prossimi due giorni.
Grazie alla segnalazione di un amico, abbiamo un riferimento per pernottare (del resto non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta): è l’Holiday Motel, che individuiamo subito data la sua posizione proprio di fronte alla Stratosphere Tower, uno dei più recenti eccessi (1995) dell’architettura locale, che a distanza di chilometri caratterizza la skyline cittadina con i suoi 308 metri d’altezza. Due buone camere ci costano per le prime due notti $ 41 l’una, circa 15 in più per quella di sabato, grazie alla simpatica consuetudine americana di gonfiare le tariffe nei week-ends.
Sono comunque cifre convenienti in una città dove il consumismo e il lusso sfrenato la fanno da padrone: la filosofia imperante è nondimeno quella di fornire alloggio e vitto a prezzi bassi per invogliare i visitatori alla permanenza in città, tanto c’è la certezza che il danaro dei turisti piove copioso sotto altra forma, vale a dire come introito dei casinò.
Già dal primo giro esplorativo in città notiamo che alberghi e motel fanno a gara nell’esporre grossi cartelli con le promozioni più allettanti, così come i fast-foods a offrire le classiche combinazioni hamburger + insalata + toast + patatine + bevanda per non più di 3-4 dollari.
Ma venire a Las Vegas e mangiare nei fast-foods non avrebbe senso: tutti i grandi alberghi propongono buffet con la formula “all you can eat”, grazie ai quali ci si può satollare per 10-12 $ con carni, pesce, insalate, frutta, dolci in grande assortimento, il tutto in ambientazioni da favola. Con cene di tale entità, il problema dell’alimentazione è risolto per l’intera giornata.
Per questa prima sera ci orientiamo sul Treasure Island, hotel di 36 piani con 2900 camere nel quale il tema dominante è il famoso romanzo di Robert Louis Stevenson, con strutture, decorazioni e arredi che richiamano la marineria e l’epopea dei corsari. Ma prima di accedere al buffet ci uniamo alla folla che si assiepa all’esterno per lo spettacolo gratuito di un quarto d’ora che si ripete ogni novanta minuti a partire dalle 18. In una laguna artificiale circondata da rocce, capanne, palmizi e vegetazione tropicale si affrontano i due velieri in grandezza naturale della marina inglese e dei pirati, con gli equipaggi in costume dell’epoca, in un rincorrersi di effetti di incredibile realismo: colpi di schioppo, cannonate, alberi abbattuti, vele che vanno in fiamme, marinai che si arrampicano sulle sartie o si gettano in acqua, una delle due navi che alla fine addirittura affonda inclinandosi su un fianco. Noi assistiamo da un pontile che scavalca al centro lo specchio d’acqua, praticamente nel cuore della scena, e il coinvolgimento è tale che viene istintivo abbassarsi per evitare le pallottole: davvero un’americanata tra le più estreme, ma non si può non rimanere ammirati per l’indiscutibile professionalità dell’esibizione. È divertimento, ma organizzato con estrema serietà; in questo, gli Americani sono maestri indiscussi.
Anche il buffet si rivela all’altezza dello show: non elenco tutto, ma ricordo ancora con l’acquolina in bocca i monumentali vassoi di gamberi in salsa rosa dei quali abbiamo fatto indecorosa scorpacciata. Anche le due cene successive, al Circus Circus e al Golden Nugget, non saranno da meno. A proposito, ricordatevi che le salse sono chiamate “dressings” e che per ottenere della salsa rosa bisogna domandare “thousand islands”: chiedendo “pink sauce” si rischia di suscitare l’ilarità generale, ma d’altra parte lo rischierebbe anche chi in Italia ordinasse la “salsa delle mille isole”.

Venerdì 7 / Sabato 8 giugno 2002
LAS VEGAS (km. 85 / 6645)

Allora, ecco Las Vegas a nostra disposizione per due giorni: già in questa stagione la temperatura diurna non tarda ad assestarsi intorno ai 40° con il condimento di un vento torrido che si placa raramente. Quindi, via libera a calzoncini corti, canotta, sandali, copricapo e occhiali da sole: anche nei locali più lussuosi nessuno troverà da ridire (basta portargli dei quattrini…: i latini dicevano “pecunia non olet”, il danaro non puzza).
Ormai, tra guide di viaggio, racconti di amici e il primo assaggio di ieri sera, siamo già abbastanza padroni delle “Istruzioni per l’uso del luogo più assurdo del mondo”.
Innanzitutto, ecco due parole sulla storia di questa città, autentico campionario delle iperboli, del kitsch, del consumismo e della megalomania americani. Però, anche in un viaggio incentrato sulle attrattive naturali qual è il nostro, questa meta deve comunque essere inserita: in caso contrario la conoscenza dell’America risulterebbe incompleta.
All’inizio degli Anni Venti Las Vegas, fino ad allora un agglomerato di case di agricoltori e mandriani nel contesto di una regione dal clima infame, cominciò a popolarsi grazie all’arrivo della linea ferroviaria e ai lavori della diga di Hoover. Si innescò velocemente una catena che in pochi decenni diede luogo alla realizzazione più pazzesca nella storia dell’urbanistica, del divertimento e del business: per incrementare la popolazione le autorità del Nevada semplificarono al massimo le procedure dei matrimoni e conseguentemente, per dare uno svago (e alleggerire i portafogli) agli abitanti in continuo aumento, fu totalmente liberalizzato (primo Stato degli U.S.A.) il gioco d’azzardo con l’immediata fioritura delle case da gioco. Nel 1946 un altro salto di qualità fu la costruzione del primo tra i casinò-alberghi giganti, il Flamingo, ad opera di Benjamin Siegel, impersonato da Warren Beatty nel film “Bugsy” del 1991 che ne narra la vicenda.
Ho detto casinò-alberghi: in effetti a Las Vegas bisogna dimenticare il concetto di hotel come lo si intende normalmente, cioè un luogo nel quale si entra, ci si dirige alla reception e si prenota una camera. Qui si deve parlare di casinò che sono “anche” alberghi, visto che i vari ingressi introducono sempre in saloni immensi che ospitano una sequenza interminabile di slot-machines e solo dopo lunghi giri in questo labirinto di tentazioni, tintinnii e luci colorate si rintraccia la reception: non a caso, tra i molteplici cartelli che indirizzano alle sale da gioco, ai bar, alle casse, ai buffet, alle monorotaie interne che collegano con gli hotel adiacenti, alle boutiques di lusso, quelli meno numerosi e meno evidenti sono proprio Reception e Exit. Nulla è lasciato al caso per farvi giocare: troverete slot-machines dovunque, anche nei corridoi in cui ci si mette in coda per il buffet e persino in quelli che portano alle toilettes.
Le perfide macchinette, sulle quali si basano gli imperi finanziari di Las Vegas, sono di gran lunga il più diffuso tra i giochi d’azzardo; anche il più semplice, visto che questi one arm bandits (banditi con un solo braccio) possono essere oggi azionati con ancora minor sforzo, essendo stata la leva (appunto il braccio) sostituita da un pulsante. I gestori assicurano che il 90% delle monetine introdotte nelle slot vengono ridistribuite sotto forma di vincite, il che può incoraggiare gli scommettitori sprovveduti; in realtà su quel 10% (a torto ritenuto irrilevante) a favore del banco si fondano le fortune dei casinò e le rovine dei giocatori. Non a caso gli abitanti della città, che sanno bene come va immancabilmente a finire, se ne tengono lontani e lasciano che siano i turisti a contendersi ventiquattr’ore su ventiquattro i seggiolini e i barattoli portamonete con il logo del casinò (uno dei classici souvenirs di Las Vegas). Da parte mia, avevo prefissato di investire (almeno una volta bisogna provare) un dollaro, senza andare oltre, con 10 giocate da 10 cents ciascuna: il caso mi ha voluto premiare con l’inebriante scampanellìo della pioggia di monetine per un totale di 10 dollari, ma mi sono limitato a offrire da bere agli amici e la cosa è finita lì.
Sotto l’aspetto del gioco tutti i casinò-alberghi della città sono simili ma, visto che il business non si deve mai fermare, i gestori hanno continuato a sbizzarrirsi con sempre nuove trovate e nuove tematiche con le quali caratterizzare e rendere unico ciascun hotel.
Eccoci allora all’attività primaria da esercitare da parte di chi si soffermi un paio di giorni a Las Vegas: percorrere tutto lo Strip visitando il maggior numero possibile di alberghi che vi si affacciano. Si parla in effetti del Las Vegas Boulevard, l’arteria di 6 km. che taglia in senso nord-sud la città parallelamente alla Interstate n. 15, più noto però come The Strip proprio per il rischio di ritrovarsi completamente spogliati dai troppi passaggi davanti alle slot o ai tavoli da gioco prima di arrivare al termine.
Data la lunghezza e il caldo torrido, conviene percorrerlo a piedi a settori, spostandosi poi da un blocco all’altro con l’auto. Avviso subito che il posteggio in città, a parte i cortili dei motels, è dovunque problematico: ci è capitato di rimanere in auto dieci minuti in un punto dove non eravamo d’intralcio a nessuno in attesa che Lino uscisse da un supermarket e di essere invitati due volte da uno dei tanti poliziotti su carrettini elettrici che rastrellano le strade, cortese ma categorico, ad andarcene immediatamente. La risorsa migliore è quindi usare i parcheggi interni a più piani dei grandi alberghi: nessuno verrà a controllare se siate davvero ospiti, stiate giocando al casinò dell’hotel o vi siate trasferiti in uno vicino.
Consiglio di partire da nord dedicando prima un po’ di tempo a una passeggiata lungo le strade del nucleo storico (Downtown), resa piacevole dal fatto che è in buona parte coperto da un’alta galleria a vetrate che concorre a ridistribuire l’aria condizionata che fuoriesce dai vari locali. Anche se la fama dell’area è andata via via affievolendosi per le sempre aumentate attrazioni dello Strip, qui si respira ancora un po’ dell’atmosfera delle origini, grazie alla presenza di casinò mitici dalle insegne al neon un po’ datate ma suggestive quali il Fremont, il Four Queens, il Lady Luck e soprattutto il Golden Nugget, oltre che di una miriade di negozietti e bancarelle che vendono l’impensabile. Il merchandising propone un’offerta che va dal gadget da pochi cents agli articoli raffinati (e carissimi) ispirati alle tematiche degli Hotels, ma un oggetto-regalo di poco impegno intonato alla città, sicuramente gradito e a buon mercato, può essere uno dei mazzi di carte con il logo dei vari casinò: utilizzati per legge ciascuno una sola volta, sono poi messi in vendita nei numerosi empori al ridicolo prezzo di un dollaro.
Una delle carte vincenti dei magnati dell’immenso business legato a Las Vegas sembra essere: “Non siete mai stati a vedere la torre Eiffel, le Piramidi, la Statua della Libertà, Roma, Venezia? Nessun problema, li riproduciamo qui e dentro ci potete anche giocare, dormire e mangiare”. Si conta anche molto sul fatto che l’Americano medio è piuttosto di bocca buona e non guarda troppo per il sottile quanto a buon gusto e grado di fedeltà delle ricostruzioni storiche. E poi… ammettiamolo: ci divertiamo da matti anche noi!
Il risultato lo si vede percorrendo lo Strip e ne citerò solo qualche esempio lasciando a ciascuno il gusto di scoprire il resto.
Il Circus-Circus già dall’esterno a forma di tendone fa capire la grande quantità di attrazioni per grandi e piccini che offre all’interno: dappertutto acrobati, giocolieri, mimi, prestigiatori e intrattenitori vari che si aggirano anche tra le sale da gioco e le slot-machine (non sia mai detto che ne stiate lontani!), oltre a giostre, stands da luna park e un colossale ottovolante con i carrelli che su un tratto si tuffano addirittura in una vasca d’acqua. “Il più grande circo permanente del mondo!” proclamano i volantini.
Il successivo che si incontra è il già descritto Treasure Island. Poco più avanti spicca il Venetian, che vanta attualmente con 7000 camere il record della ricettività, destinato probabilmente a durare poco, visti i numerosi cantieri edili che fanno capire quanto sia frenetica l’espansione verso il deserto. Del resto lo spazio non manca, la richiesta del mercato è continua ed esiste anche un risvolto occupazionale non indifferente: si calcola che ogni nuova camera d’albergo produca 2,5 nuovi posti di lavoro.
Il Venetian, dunque: come dice il nome, si tratta della ricostruzione di un angolo di Venezia con tanto di Palazzo Ducale, Ponte di Rialto, Campanile di San Marco, canali con le gondole (uno dei gondolieri è di colore, che sia il Moro di Venezia?), addirittura stormi di piccioni addestrati a prendere il volo ad ore stabilite. In questo come in tanti altri casinò-alberghi si nota che, nonostante trionfi il kitsch più sfrenato, la pietra da costruzione, i marmi, gli arredi, i pavimenti, i tappeti, i decori, i lampadari, le tappezzerie sono sempre di prim’ordine: finzione sì, ma con materiali veri!
Proprio di fronte al Venetian eccoci al Mirage. Lo sterminato salone delle slot-machine è strutturato come un tratto di foresta tropicale con tanto di giardini, cascatelle e centinaia di palme autentiche: in un’ambientazione così piacevole anche le perdite al gioco devono essere meno dolorose… Lo spettacolo gratuito consiste in eruzioni vulcaniche molto realistiche che avvengono dopo il tramonto ogni quarto d’ora; quello a pagamento, in cartellone da dieci anni, è tenuto da Siegfried & Roy, due prestigiatori dai capelli tinti e cotonati che come gran finale della loro esibizione riescono a far sparire una delle loro tigri bianche. Per assistervi è sufficiente sganciare $ 105,50 a cranio e mettersi l’abito elegante: del secondo siamo sprovvisti, i primi preferiamo spenderli diversamente, anche perché la vista delle stupende tigri che al di là di una vetrata vagano avanti e indietro in una finta giungla ci ispira una certa tristezza. Insomma, anche se lo show, con effetti speciali a cura di Spielberg e George Lucas e musiche di Michael Jackson, è descritto come imperdibile, noi decidiamo di perdercelo!
Nel Caesar’s Palace tutto è ispirato all’antica Roma, dalle cameriere in toga alla piscina a forma di scudo alla grande fontana sulla quale si muovono gli automi delle varie divinità dalle sembianze perfettamente imitate. All’interno, da non perdere è il Forum Shopping Center, considerato insieme al Queen Victoria Building di Sydney (anche se sono cose totalmente diverse!) il più bel centro commerciale del mondo: in effetti la riproduzione di una strada dell’antica Roma è davvero fedele e verosimile, anche se i negozi che vi prospettano sono naturalmente del nostro tempo! Il cielo soprastante muta colore a seconda delle ore del giorno e si stenta a credere che si tratti di una finzione all’interno di un ambiente chiuso. Gli appassionati di pugilato ricorderanno il Caesar’s Palace per i numerosi incontri per il titolo mondiale ospitati nel suo teatro.
Al dirimpettaio Flamingo ho già fatto cenno. Anche se comincia a perdere colpi di fronte ai casinò più recenti, si può dedicare qualche minuto alla visita di questo pezzo della storia di Las Vegas dove domina il rosa, il colore del fenicottero (o, appunto, del flamingo) che gli dà il nome; particolarmente piacevole è il parco alberato, spesso affollato da cortei nuziali per servizi fotografici e da turisti che si prendono qui una pausa di riposo dalla maratona tra una bizzarria cittadina e l’altra.
Il Paris - Las Vegas è incentrato, è evidente, sui siti di rilievo della capitale francese, primo su tutti la Torre Eiffel, in scala ridotta rispetto all’originale: tutto sommato, mi sembra una delle realizzazioni meno riuscite. Più scenografica è l’offerta del vicino Bellagio, uno dei casinò-alberghi più recenti (1998), chiaramente ispirato alla cittadina del Lago di Como: i giochi d’acqua luminosi che vengono rappresentati la sera ogni 15 minuti sono uno degli spettacoli più avvincenti a cui si possa assistere a Las Vegas. Raccomandabile anche il museo al suo interno: in una città nella quale tutto è finto si sborsano 12 $ veri, ma in compenso sono veri anche gli splendidi dipinti di Matisse, Van Gogh, Cézanne, Degas che vi si possono ammirare.
Il New York New York, come si può indovinare, è un modello in scala ridotta dei principali monumenti della “Grande Mela”, dalla Statua della Libertà all’Empire State Building al Ponte di Brooklin. Proprio di fronte, raggiungibile da un cavalcavia che offre una spettacolare veduta dall’alto sullo Strip e sugli alberghi della sua estremità sud, sorge il MGM, il cui ingresso è tra le fauci del colossale leone dorato che simboleggia l’omonima casa cinematografica; la tematica richiamata in tutti gli ambienti interni è naturalmente quella del cinema ed è divertente scorrere in rassegna gli innumerevoli pannelli raffiguranti scene di films e attori più o meno famosi.
L’Excalibur, un fantasmagorico miscuglio di stili a forma di castello con torrette appuntite dai colori più svariati particolarmente gradito dal pubblico infantile, rievoca in ogni particolare i personaggi e la saga di Re Artù e della Tavola Rotonda.
Al suo fianco, ecco il complesso più esteso di tutti, probabilmente anche il più kitsch e megalomaniaco, il Luxor: il tema è quello dell’antico Egitto, ma i progettisti hanno qui usato la mano particolarmente pesante assemblando una mescolanza, spesso grossolana, con elementi di altre antiche civiltà. Ma gli Americani, l’ho già detto, non fanno troppo gli schizzinosi. È difficile immaginare una cosa più esagerata: la Sfinge è in grandezza naturale, così come la piramide (chissà perché, nera) che ospita 3000 camere, all’interno della quale gli ascensori seguono un percorso obliquo che ricalca quello delle pareti, mentre l’atrio è il più esteso del mondo. Dal suo vertice viene proiettato verso il cielo un fascio luminoso talmente potente da essere visibile a 400 chilometri di distanza!
Davanti a questi eccessi e passeggiando la notte lungo lo Strip illuminato a giorno spostandoci da un albergo all’altro, ci convinciamo che con il corrispettivo dell’energia elettrica consumata in città in un giorno, potremmo vivere tutti e quattro da nababbi per i prossimi cent’anni di vita.
Tra la miriade di rutilanti insegne luminose che pubblicizzano questo o quello spettacolo, fanno spicco alcuni nomi che, per noi che abbiamo sul groppone qualche annetto, ispirano un misto tra nostalgia e patetismo. Oltre alla prevedibile schiera di ignoti cloni di Elvis Presley o dei Beatles più o meno somiglianti, ecco così invitarci, con i loro sorrisi di ultrasessantenni (o giù di lì) incrostati nel cerone, eccellenti rappresentanti della serie “Dove sono andati a finire?”: Tom Jones (macho e sudato più che mai), Neil Sedaka e Neil Diamond (imparrucchinati e fasciati in abiti luccicanti di misura inadeguata), Gladys Knight (ricordate Gladys Knight & The Pips? erano gli anni Settanta, il “Sound of Philadelphia” della Tamla Motown), The Righteous Brothers (proprio quelli di “Unchained Melody”, il motivo conduttore di “Ghost” per intenderci); più giovani ma altrettanto “desaparecidas”, Toni Braxton (una meteora, bella voce femminile di colore dei primi Anni Novanta) e Sheena Easton (qualcuno la ricorderà, era una delle lolite della corte di Prince a metà degli Ottanta).
Sì, questa è Las Vegas, davvero un mondo a parte. Ma un altro mondo all’interno di questo mondo è quello dei matrimoni facili, che secondo le statistiche vengono celebrati nella misura di circa 100.000 l’anno.
La pratica puè essere espletata da parte di chiunque con pochissime formalità: prima incombenza è quella di recarsi all’apposito e sempre affollato ufficio della County Court House, vale a dire il municipio di Las Vegas: qui basta avere18 anni, il passaporto e una cinquantina di dollari per ottenere in pochi minuti una licenza di matrimonio fresca di stampa. Il passo successivo è la scelta, tra le centinaia presenti in città, della cappella in cui officiare il rito: già sul piazzale antistante la Court House staziona in permanenza una piccola di folla di personaggi che offrono il loro servizio a suon di offerte speciali, una concorrenza che ricorda quella tra i motels e i fast-foods. In pratica ci se la può cavare con poche decine di dollari, sempre che non se ne vogliano investire parecchie migliaia: in tal caso l’offerta è praticamente infinita e il prezzo lievita a seconda che si scelga la Cadillac, la limousine, l’elicottero, la mongolfiera, gli addobbi floreali, il corteo in costume da cowboys o popstars, la musica dal vivo o l’animazione ad opera di sosia di cantanti o attori.
Particolarmente ambite sono poi quelle cappelle che abbiano ospitato matrimoni di gente famosa: così i fanatici di Dinasty possono togliersi lo sfizio di celebrare le nozze nella Little White Chapel, dove si sposò Joan Collins, ma anche tanti altri tra cui Demi Moore e Bruce Willis. La più bella, anche perché in legno, un po’ decentrata e immersa nel verde, è la Little Church of the West, classificata anche monumento nazionale (in America basta poco, lo sono tutte le cose che abbiano almeno cinquant’anni); qui si sposarono ad esempio Mickey Rooney, Judy Garland, Telly Savalas, Richard Gere e Cindy Crawford.
Si è pensato anche alle coppie particolarmente frettolose, con la formula “drive through”: come nei fast-foods che servono il pasto in macchina, qui ci si può sposare “al volo” senza scendere dall’auto. Che romanticismo!
Infine, anche tutti i grandi alberghi hanno la cappella interna, dove organizzano ai clienti, naturalmente a prezzi adeguati, matrimoni in costume intonati alle varie ambientazioni, dall’antica Roma all’Egitto dei Faraoni al Medioevo all’Isola del Tesoro.
This is Las Vegas! This is America!

Domenica 9 giugno 2002
LAS VEGAS – DEATH VALLEY – LONE PINE (km. 555 / 7200)
Un soggiorno di due o tre giorni a Las Vegas, l’ho già detto, è da raccomandare anche nell’ambito di un viaggio incentrato sulle attrattive naturali; del resto, trasferendosi dal Parco di Zion alla Valle della Morte, ci si passa per forza. Contraddittorio e discutibile quanto si vuole, è un aspetto non secondario che mi sembra opportuno conoscere per tornare a casa con un quadro dell’America il più completo possibile.
Ma viene sempre il momento di ripartire, e dopo tre giorni di cose estreme non ci dispiace lasciarci alle spalle Las Vegas e immergerci nuovamente nella natura: peccato solo che il viaggio stia volgendo al termine.
L’uscita nord-ovest dalla città immette nella Hwy 95, che percorriamo per 142 km. fino al bivio di Amargosa Valley: qui si dirama verso sud la statale 373 che in circa mezz’ora porta, poco dopo essere passati dal Nevada alla California, a Death Valley Junction, ormai in pieno ambiente desertico. Prima di imboccare la 190 che coinciderà con buona parte dell’itinerario odierno, è opportuno approfittare dell’ultima stazione di servizio (anche la più cara di tutto il viaggio, benzina senza piombo a $ 1,89 al gallone contro una media di circa $ 1,50) per fare il pieno e controllare l’acqua nel radiatore dell’auto; in caso di emergenza esistono comunque nel parco appositi serbatoi.
Dopo tutti quelli che abbiamo visto, è difficile abbinare alla Valle della Morte, vale a dire uno dei luoghi più inospitali del pianeta, il concetto di Parco Nazionale. Eppure vanta una quantità di primati: è il più esteso degli U.S.A. con 13.355 kmq., quasi tre volte il Grand Canyon o una volta e mezzo Yellowstone che pure, come abbiamo visto, è più grande dell’Umbria; detiene il record delle temperature, circa 50° d’estate con una punta di 57° nel 1913, e quello del minor tasso di umidità, di poco superiore allo zero; presenta il punto più basso dell’emisfero occidentale con –85 metri, una differenza di 3453 con la massima elevazione di Telescope Peak.
Oggi la temperatura si limita a sfiorare i 42°, condizione comunque impegnativa sia per le persone che per gli automezzi, in particolare sulla deviazione che porta a Dante’s View, il primo dei luoghi di visita per chi, come noi, provenga da est; la strada, a pendenza molto pronunciata, porta a quota 1669, sull’orlo di un’elevazione dalla quale si gode di una veduta immensa sulla parte più desolata, ma al tempo stesso emozionante, della Death Valley. La sconfinata distesa di sale ai nostri piedi fa pensare a un paesaggio infernale e si capisce pienamente perché hanno chiamato questo posto “Veduta di Dante”!
Ridiscesi i 21 km. che riportano sulla 190, ne percorriamo un’altra decina fino a due punti particolarmente significativi. Una breve sterrata ad anello, il 20-Mule-Team-Canyon, ricorda l’epoca dello sfruttamento dei giacimenti di borace, utilizzato nelle industrie del vetro e dei detersivi: verso la fine dell’Ottocento fu costruita una strada di 265 km. per portare fino alla stazione ferroviaria di Mojave i carichi di minerale a mezzo di enormi carri con ruote alte quanto un uomo trainati da un tiro di venti muli. Ogni viaggio durava non meno di una decina di giorni e si svolgeva in condizioni spaventose.
A breve distanza, eccoci a Zabriskie Point, vero e proprio luogo di culto legato all’omonimo film del 1970 di Michelangelo Antonioni. L’atmosfera ipnotica che permeava la vicenda fu resa alla perfezione dalla colonna sonora dei Pink Floyd, dei Grateful Dead, dei Kaleidoscope e di John Fahey, e adesso anche noi siamo qui a condividere le suggestioni dell’ennesimo luogo magico toccato nel corso di questo viaggio: defilarsi un po’ dal belvedere e aggirarsi in questo scenario fatto di aride ondulazioni dalle incredibili colorazioni pastello immersi in un silenzio irreale, nonostante il caldo fa davvero venire la pelle d’oca.
Dopo averlo visto dall’alto, è il momento di scendere nel cuore del deserto di sale. Lasciato Zabriskie Point, dopo pochi minuti ci si innesta sulla route 178 che in 26 km. porta al posto che in maggior misura incarna la struggente desolazione di queste terre: con l’eloquente nome di Badwater è definito il punto più basso degli Stati Uniti e dell’emisfero occidentale, 85 metri sotto il livello del mare. L’ennesima foto di gruppo è d’obbligo, anche se in realtà non c’è altro che un cartello su un paletto conficcato in mezzo a un accecante nulla assoluto! A breve distanza, è da non perdere la sosta al Devil’s Golf Course, luogo dal nome evocativo non meno di Badwater: il “Campo da golf del diavolo” è infatti una distesa di terra e sale che il vento ha solidificato in una crosta di zolle frastagliate e taglienti.
Di ritorno verso il bivio, un percorso ad anello a senso unico di una quindicina di km. attaversa la cosiddetta Artists Palette (tavolozza degli artisti), in mezzo a formazioni rocciose dai colori più svariati dovuti a vene di ferro, mica e manganese inserite nella pietra vulcanica.
Rientrati sulla 190, facciamo una puntata, più che altro per avere un po’ di tregua dal caldo (e non siamo che a inizio giugno…), al Visitors’ Center di Furnace Creek, nel quale vale pena di dedicare un po’ di tempo all’interessante museo dedicato all’epopea mineraria, per giungere, dopo altri 45 km., a Stovepipe Wells Village, un gruppo di edifici in stile western con una buona offerta di servizi; nelle vicinanze, ci si imbatte nell’ennesimo cambiamento di paesaggio del Parco, un’inattesa estensione di dune sabbiose.
Intanto la strada sta prendendo quota fino a superare i 1511 metri del Towne Pass; Panamint Springs, in uno scenario che sta gradualmente perdendo le caratteristiche desertiche per offrire verso ovest i primi profili della Sierra Nevada, coincide con l’entrata (o uscita) occidentale della Death Valley. Ancora una settantina di km. in discesa sulla 190 ed eccoci innestarci sulla Hwy 395 north all’altezza di Olancha, nel tratto che costeggia il vasto bacino asciutto dell’Owens Lake: le sue acque cominciarono a ritirarsi quando, ai primi del Novecento, gli immissari del lago furono deviati per alimentare l’acquedotto di Los Angeles. In compenso, nel letto prosciugato fu scoperta una grande quantità di minerali.
La nostra meta è ora Lone Pine, che avevamo già individuato come ideale luogo di tappa per le ragioni che tra poco dirò. Ancora una quarantina di km. e siamo là; come al solito, non abbiamo problemi di pernottamento, per il quale scegliamo il Mount Whitney Motel, dall’ottimo rapporto qualità/prezzo ($ 49,56 per ciascuna camera). Per la cena, ci orientiamo sul Seasons Restaurant, dove, oltre che mangiare ottimamente, ritroviamo un vecchio amico: il vino (si vede che siamo entrati in California)! Dopo venti giorni di astinenza non c’eravamo più abituati e mentre facciamo una passeggiata digestiva ci sentiamo decisamente allegrotti: non abbiamo quindi bisogno di tisane o ninnananne per prendere sonno.

Lunedì 10 giugno 2002
LONE PINE – LEE VINING (km. 383 / 7583)
Lone Pine, anche se il nome giungerà del tutto nuovo ai più, ha parecchie attrattive che rendono raccomandabile una sosta. Costituita in prevalenza da edifici di legno in stile western, è situata a quota 1130 ai piedi di una spettacolare cerchia di montagne tra le quali svetta la piramide granitica di Mount Whitney, con i suoi 4418 metri la cima più elevata dei 48 stati contigui (cioè escluse Alasca e Hawaii) degli USA. La conformazione del territorio circostante, che prende il nome di Alabama Hills, è continua fonte di ispirazione per l’industria cinematografica fin dal 1919 (il primo lungometraggio fu “Water, water everywhere”, un milione di dollari a chi l’ha mai visto!): la zona è infatti costituita da un labirinto di grossi massi levigati addossati l’un l’altro in forme bizzarre, scenario ideale per cavalcate, inseguimenti, sparatorie e agguati del cinema di azione. Percorrendo l’itinerario che è stato tracciato all’interno dell’area, sembra di rivivere le vicende di films quali “La carica dei 600”, “Gunga Din”, “I lancieri del Bengala”, “Una pallottola per Roy”, “La grande corsa”, “Nevada Smith”, “Tremors”, per non citarne che alcuni dei 315 qui ambientati.
Per chi voglia approfondire l’argomento, al Visitors’ Center è disponibile un’esauriente documentazione, mentre alla Camera di Commercio, oltre che visitare una bella esposizione di locandine, fotografie e autografi di attori, si può ottenere gratuitamente l’elenco completo dei films girati nel circondario di Lone Pine. Infine, da non perdere il sito riportato nei links in fondo all’articolo.
Ci aspetta ora una tappa di trasferimento, ma sbaglieremmo se pensassimo di avere davanti un percorso monotono. Innanzitutto il tratto della Hwy 395 che percorreremo è classificato per intero scenic drive; a ciò si aggiunga la scoperta di una attrattiva imprevista grazie a un opuscolo e ad alcune cartoline in mostra nello store dove facciamo colazione ed ecco che anche la giornata odierna non ci deluderà!
La strada offre ininterrottamente splendidi panorami su grandi radure, fiumi, laghi; in particolare sulla nostra sinistra (ovest) si estende la Inyo National Forest ai piedi delle cime della Sierra Nevada.
La cittadina di Big Pine, circa 70 km. più a nord, si trova in una Recreation Area molto apprezzata dai pescatori e dagli escursionisti, che frequentano soprattutto i sentieri di un’area protetta a circa 40 km. a nord-est della cittadina: qui si estende una foresta di pini Bristlecone, alcuni dei quali sono considerati, con 4600 anni di età, i più antichi organismi viventi sulla faccia della Terra. In un ambiente in cui prevalgono ormai i caratteri alpini, si superano in successione Bishop, il Lago Crowley e Mammoth Lakes fino a scollinare ai 2449 metri del Deadman’s Pass; ancora pochi minuti e si comincia a scorgere dall’alto la depressione nella quale si estende il Mono Lake.
Il centro più importante (anzi l’unico) che prospetta sul lago è Lee Vining, dove giungiamo intorno alle 14. Fissiamo due camere per $ 54 l’una al Lee Vining Motel, una struttura confortevole che comprende anche un emporio di buon artigianato indiano. Riprendiamo subito la strada diretti al luogo scoperto in cartolina qualche ora fa: 25 km. sulla Hwy 395 north (raccomandabile una sosta a un magnifico belvedere sulle montagne innevate ai 2480 metri di Conway Summit) e altri 16 lungo la tortuosa statale 270 portano a Bodie, una delle meglio conservate tra le ghost towns che ricordano l’epopea della corsa all’oro nella seconda metà dell’Ottocento. Il sito è oggi protetto come state park e, grazie a un’opera di restauro precisa e verosimile, si respira ancora un’atmosfera spettrale nell’aggirarsi lungo le strade sulle quali prospettano le abitazioni in legno complete di arredi, la chiesa, l’emporio nel quale è stato ripristinato l’interno originale, il saloon con il bancone, il tavolo e il pianoforte dell’epoca, il carcere e le attrezzature rugginose inerenti l’attività mineraria esposte all’aperto.
Non manca molto al tramonto quando rientriamo a Lee Vining: per godere al meglio lo scenario onirico del Mono Lake è il momento ideale, visto lo scarso affollamento e la magnifica luce radente. Questo specchio di acqua salata di circa 200 kmq. situato alla quota di 1900 metri corse seri rischi di seguire la stessa sorte dell’Owens Lake, quando quattro dei suoi cinque emissari furono nel 1941 incanalati verso l’acquedotto di Los Angeles, finché nel 1994 l’area fu tutelata come state reserve. Ebbe così termine il processo di abbassamento del lago, che nell’arco di 53 anni aveva però dato luogo a un paesaggio unico al mondo: dall’acqua spuntano numerose stalagmiti di tufo calcareo vecchie di 13000 anni scolpite dalla natura in forme bizzarre, alcune alte fino a una decina di metri.
Ci si può addentrare nel cuore di questa curiosità geologica percorrendo un suggestivo itinerario lungo la riva sud, parte su sentiero, parte su passerelle rialzate a protezione di un ecosistema molto delicato: sul lago si sviluppa una catena alimentare che parte da alghe microscopiche e, passando attraverso insetti e piccoli crostacei, ha termine in una grande varietà di uccelli acquatici che qui trovano nutrimento durante le migrazioni. Compiamo anche un’altra tappa del nostro itinerario nei luoghi della musica: Mono Lake è infatti ritratto nella copertina interna dell’album dei Pink Floyd “Wish you were here”, vera pietra miliare della pop-music e della grafica.
Per cena, smaltiamo il più possibile delle provviste, costituite in buona parte da frutta e biscotti, disseminate in ogni angolo del bagagliaio: la parte itinerante del viaggio avrà termine dopodomani a San Francisco e ormai non abbiamo più bisogno di quelle che scherzosamente abbiamo definito “razioni di sopravvivenza”. La passeggiata serale ci fa capire quanto le montagne siano ormai vicine: la temperatura è infatti decisamente bassa. Non è un caso che i letti siano corredati di soffici piumini, dei quali ci godiamo ogni centimetro quadrato.

Martedì 11 giugno 2002
LEE VINING – YOSEMITE N.P. – OAKDALE (km. 325 / 7908)
La Hwy 120, che ha inizio a Lee Vining e coincide in pratica con la scenic route che taglia in senso est-ovest lo Yosemite National Park, prende subito a salire riservandoci scenari montani da togliere il fiato, ancora più spettacolosi in una giornata di eccezionale limpidezza. Sulle rive di due magnifici specchi d’acqua, l’Ellery e il Tioga Lake, sono situate piazzole panoramiche sulle quali facciamo sosta, ben presto raggiunti da grosse marmotte che si spingono fino a i nostri piedi.
Dopo 16 km. varchiamo la barriera del Tioga Pass, ingresso est di Yosemite. Ci troviamo a quota 3031: due giorni dopo avere toccato il più basso, eccoci al punto più alto del nostro viaggio. Il valico rimane chiuso per neve circa da inizio novembre a fine maggio: al proposito, consiglio di visitare il curioso sito (vedi Links) che riporta la statistica dei periodi di apertura a partire dal 1933. Gli opposti records sono 69 giorni (dal 27/6 al 4/9) nel 1944 e 263 (dal 10/4 al 29/12) nel 1976. Quest’anno il passo è agibile dal 24 maggio.
Dopo avere raccolto la consueta documentazione al Visitors’ Center di Tuolumne Meadows, percorriamo integralmente in direzione ovest i 70 km. della Tioga Road, spesso tortuosa e da percorrere con calma, anche per apprezzare al meglio lo scenario nel quale siamo immersi. Quanto più procediamo, tanto più ci rendiamo conto della grandiosità di questo Parco, vero trionfo di valli glaciali, alberi di alto fusto, animali in libertà, laghi e cascate, imponenti pareti granitiche. Ad Olmsted Point, su un tornante poco oltre il bellissimo Tenaya Lake, è d’obbligo una sosta per ammirare la prima veduta sul Half Dome che, pur ancora lontano, offre il classico profilo della sua “mezza cupola”.
Al termine della Tioga Road si dirama il bivio che porta nel cuore della Yosemite Valley, ma conviene prima posteggiare l’auto su uno slargo a breve distanza e dedicarsi a un’interessante escursione a piedi. La meta è Tuolumne Grove, uno dei due siti del parco (l’altro è Mariposa Grove, presso l’entrata sud) in cui si ergono spettacolari alberi di sequoia: con una passeggiata di circa 4 km. tra andata e ritorno si giunge ai piedi di alcuni esemplari vecchi di 2700 anni, che raggiungono i 70 metri di altezza e i sei di diametro.
Tornati in macchina, ci immettiamo sulla Big Oak Flat Road che porta alla Yosemite Valley, in cui si concentrano le attrazioni più popolari del Parco. Per la prima volta da quando siamo in America, la circolazione ci dà qualche grattacapo: lungo la strada, che si sviluppa su un anello allungato dove è previsto il senso unico, ci sono frequenti cantieri di lavoro, in un caos di segnaletiche provvisorie che ci inducono un paio di volte in errore (caso raro, con al volante un “piccione viaggiatore” qual è Enzo…). Inoltre, rispetto ai primi giorni la stagione sta ormai avanzando e comincia ad essere notevole l’afflusso di visitatori, numerosi anche perché San Francisco dista poco più di 200 chilometri.
Troviamo, in maniera un po’ piratesca, un angolino nel sempre congestionato parcheggio del Valley Visitors’ Center e ci rechiamo ad ammirare le Yosemite Falls. Una passeggiata di 800 metri porta alla loro base, ma già sono ben visibili dall’imbocco del sentiero che si sviluppa tra due filari di alberi: parliamo al plurale perché si tratta di tre salti in successione che precipitano dall’orlo di una scarpata rocciosa per complessivi 739 metri, il che ne fa le cascate più alte di tutto il Nordamerica.
Ci spostiamo di una decina di km. per fare sosta in un luogo di particolare suggestione: siamo nel punto in cui la Yosemite Valley rende al meglio l’idea della sua conformazione di valle glaciale, una larga radura erbosa anticamente sede di un immenso ghiacciaio, a testimonianza del quale ci sono oggi solo le acque del Merced River. Ci troviamo ai piedi di El Capitan, il monolite di granito più alto del mondo con i suoi 2307 metri, di cui 1096 di drammatica verticalità sul livello della piana. Questa roccia molto compatta ma poverissima di appigli naturali cominciò ad attrarre gli scalatori alla fine degli anni Sessanta e fu l’inizio del cosiddetto “alpinismo californiano”: nel giro di pochi decenni furono aperte vie di arrampicata di difficoltà fino ad allora impensabili e la famosa scala Welzenbach, che fissava il limite nel sesto grado superiore, diventò in breve anacronistica.
Con il binocolo scorgiamo due puntini colorati a circa due terzi di altezza. Attacchiamo discorso con un individuo che evidentemente li sta osservando da tempo con un cannocchiale su treppiede: l’uomo ci riferisce che hanno già bivaccato due notti in parete e che sarà necessario un terzo pernottamento per toccare la cima domani. Anche se non so chi siete e mai lo leggerete, vi giunga il mio, se pur tardivo, “gimme five, boys!”.
II successivo punto di interesse è raggiunto tramite un sentiero di quasi un chilometro che, come molti altri nei Parchi degli States, è agevolato per chi si muove su sedie a rotelle: sotto questo aspetto, in Italia siamo lontani anni luce! Si arriva ai piedi delle Bridalveil Falls, una cascata di quasi 200 metri le cui acque, smosse dal vento, si sfrangiano in un pulviscolo che ricorda appunto un “velo da sposa”; nel mito degli indiani Awahneecee, l’effetto era opera dello “spirito del vento che soffia”.
Prima di puntare verso l’uscita ovest del Parco, vale la pena di spingersi per pochi chilometri lungo la strada che porta a quella sud e sostare su una piazzola subito prima di imboccare un tunnel: da qui si può godere di un panorama grandioso che abbraccia El Capitan, il fondo della valle, le Bridalveil Falls e in lontananza l’Half Dome. Granito, vegetazione e acque: abbiamo davanti a noi la sintesi di Yosemite.
Non rimane che rientrare sulla 120 e dirigerci verso ovest. Con l’uscita da Yosemite si conclude anche la serie delle aree protette che abbiamo visitato: tra National Parks, State Parks, Tribal Parks e Historic Sites ne abbiamo toccati non meno di venticinque!
La strada si mantiene in quota per diversi km. per poi scendere ad ampi tornanti in un paesaggio di media montagna. Cominciamo a guardarci attorno in cerca di una sistemazione, ma Buck Meadows e Big Oak Flat offrono ben poco, mentre Groveland, paesino pittoresco con colorate casette in legno, balconi fioriti, belle insegne, sulla cui strada principale si affacciano diversi ateliers di artisti, non dà l’idea di essere un posto a buon mercato: infatti, curiosamente non esistono motels ma solo alberghi vecchiotti e pretenziosi con tariffe che ci fanno scappare a gambe levate!
Superato un ponte che scavalca il bacino del New Don Pedro Reservoir, puntiamo ormai su Oakdale, indicata sulla cartina come località di una certa importanza. Si tratta della solita cittadina piatta di strade perpendicolari che offre non più di quattro-cinque motels di pari livello. Scegliamo il Jerry’s, gestito da un indiano (dell’India) che perde non meno di un quarto d’ora in astrusi calcoli per ricavare il prezzo, $ 115 complessivi per due camere che valgono decisamente meno: cerchiamo di contrattare ma il pirata ha capito che siamo stanchi e ci tiene in pugno, così finiamo per lasciar perdere.
Concludiamo la serata investendo una decina di dollari a testa in quattro ottime pizze in un locale nelle vicinanze.

Mercoledì 12 giugno 2002
OAKDALE – SAN FRANCISCO (km. 465 / 8373)
Il programma odierno potrà essere svolto con tutta tranquillità, visto che l’alloggio a San Francisco per le ultime quattro notti è prenotato da due mesi e l’unico impegno è di essere là entro le 21.
Da Oakdale puntiamo verso ovest per allacciarci dopo 68 km., all’altezza di Tracy, alla I-5 south. Ne percorriamo sulla Interstate altri 120, fino al bivio della Hwy 152 west grazie alla quale, con un ultimo breve tratto sulla Hwy 101, si giunge a Salinas (70 km. dal bivio).
Per chi, come noi, negli anni Sessanta ha vissuto l’epoca d’oro della letteratura americana (sarà stata anche una moda, ma che capolavori!) facendo scorpacciate di Hemingway, Steinbeck, Scott Fitzgerald, Dos Passos, Wilder, Saroyan, Faulkner e tanti altri, visitare Salinas equivale all’ennesimo pellegrinaggio in terra d’America: tutto è infatti permeato dal ricordo di John Steinbeck, dalla casa natale (oggi riconvertita a hotel di lusso) in un quartiere di bellissime villette vittoriane, al centro culturale fino ai simpatici murales che illustrano scene dei suoi numerosi romanzi. Tra l’altro, proprio quest’anno ricorre il centenario della nascita dello scrittore.
Se Salinas è il luogo di nascita, l’ideale completamento del nostro itinerario steinbeckiano non può essere che Monterey, una ventina di km. a ovest. Finalmente ecco il mare, che bagna uno dei tratti più scenografici della costa californiana. Il villaggio, in cui Steinbeck ambientò romanzi quali “I pascoli del cielo”, “Vicolo Cannery” e “Pian della Tortilla” è parecchio cambiato rispetto ai tempi in cui vi si aggiravano i “paisanos” in continua ricerca di espedienti per sbarcare il lunario: oggi è una cittadina di turismo di un certo livello, piena di verde, bei negozi, locali eleganti e piacevoli case dell’epoca spagnola e messicana. Ma l’area portuale, per quanto modernizzata, ha conservato una sua gradevolezza; l’edificio in legno rosso della “Cannery” (la fabbrica di inscatolamento del pesce che fu chiusa per la progressiva scomparsa delle sardine dal golfo antistante) ha mantenuto l’originario aspetto esterno, mentre i locali interni, in cui è ancora ben visibile la struttura in prevalente legno, ospitano negozietti, la caffetteria Starbuck e il Bay Aquarium.
Per lo spuntino di metà giornata, proviamo per la prima volta il clam chowder, una coppetta di zuppa di pesce molto cremosa a base di polpa di granchio e gamberetti nella quale inzuppare il pane: è amore a prima vista! Nei prossimi giorni a San Francisco diventerà un piacevole pretesto per un break a qualunque ora della giornata.
Prima di andarcene, non può mancare la foto a fianco del busto in bronzo di Steinbeck: insieme a John davanti alla Cannery nell’anno del centenario, e chi se la perde?
Una quindicina di km. a sud di Monterey, eccoci a Carmel. Nota anche per avere avuto quale sindaco Clint Eastwood, la cittadina sorse intorno a una delle prime missioni della California fino a diventare negli ultimi decenni un significativo esempio di esperimento urbanistico ben riuscito: severe limitazioni di parcheggio, inesistenza di edifici elevati, divieto di mangiare per strada, case senza numero civico, assenza di cassette postali (la corrispondenza si ritira all’ufficio postale). Il risultato è una cittadina ordinatissima e tranquilla nonostante il forte flusso turistico, da gustare a piedi in un susseguirsi di viali alberati, magnifiche villette, gallerie d’arte, locali e negozietti di gran classe.
L’itinerario obbligato dei dintorni è la panoramica Seventeen Miles Drive, chissà perché chiamata così, visto che in realtà le miglia sono dodici e non diciassette: questi Americani! È opportuno recarsi prima all’Ufficio Turistico e ritirare la mappa dettagliata che riporta lo sviluppo della strada e la descrizione dei 22 punti di interesse che si incontrano, ciascuno contrassegnato da tabelle: tra gli altri, raccomandabili la Seal Rock Picnic Area, in vista di scogli popolati di leoni marini, Point Joe, un promontorio che fu in passato scenario di numerosi naufragi, il Lone Cypress, cipresso di 250 anni sulla sommità di un roccione in vista della costa frastagliata e soggetto irrinunciabile per pittori e fotografi. Vale anche la pena concedersi una “botta di vita” facendo un giretto per i saloni, le boutiques, il campo da golf, i giardini e la vista mozzafiato sulla baia di Carmel del “Lodge at the Pebble Beach”, uno degli alberghi più esclusivi d’America. Entriamo in calzoncini corti, tee-shirts variopinte e sandali, ma non dimenticherò mai il “Please, sirs!” dei maggiordomi in livrea che ci hanno aperto la porta con un inchino. Queste sì sono le “americanate” che mi piacciono! Ah, dimenticavo i prezzi delle suites: beh, non ve li dico, d’altra parte se si chiede prima il prezzo di una cosa significa che non ci se la può permettere. Chi proprio voglia saperlo, telefoni al 800-654-9300: mi credete se vi assicuro che sono gentilissimi?
Sono quasi le 17 quando usciamo dal Lodge (altro inchino e altro “Please, sirs!”) e non rimane che puntare su San Francisco, dalla quale ci separano circa 200 km. Imbocchiamo in direzione nord la costiera “California 1”, contrassegnata dallo scudetto verde e non meno mitica della Route 66, ma, visto il traffico, deviamo appena ci è possibile sulla Hwy 101 north, non meno affollata ma un po’ più scorrevole grazie alle 4 corsie.
Impieghiamo comunque quasi tre ore; forti delle cartine dettagliate stampate dal sito della Mapquest (vedi link nella Parte Prima), per fortuna individuiamo, tra la gran quantità di svincoli, quello giusto grazie al fatto che la 101 ha il suo logico proseguimento su una delle principali arterie urbane, la Van Ness Avenue, rettilinea in senso nord-sud. Sappiamo che una delle sue ultime perpendicolari è la Lombard Street, nella quale è ubicato il nostro hotel, per cui i temuti problemi del traffico di “Frisco” finiscono prima ancora di cominciare. Anche i sensi unici sono a nostro favore ed eccoci alle 20 in punto entrare nella reception del Ramada Limited.
Ciascuna camera ci costa $ 105 per notte e subito rimpiangiamo i tanti motel migliori di questo in cui abbiamo speso la metà: siamo al secondo piano di un edificio vecchiotto senza ascensore, le stanze sono appena normali e il servizio lascerà a desiderare. Ma dormire a San Francisco è piuttosto costoso e da un sondaggio in alcuni alberghi e motels delle vicinanze riscontriamo prezzi analoghi.
Ceniamo in un ristorantino all’angolo dello stesso edificio, vivacizzato da un coinvolgente karaoke. Mangiamo dell’ottimo pesce accompagnato da un buon vino californiano per una spesa di una ventina di dollari a testa.
Concludiamo la serata con una passeggiata fino al mare nella zona di Fort Mason, giusto in fondo alla Van Ness, ma ci aspetta un vento tagliente: non siamo adeguatamente coperti, per cui preferiamo ritirarci in albergo. Abbiamo avuto una giornata un po’ faticosa e per conoscere una delle più intriganti città del mondo abbiamo davanti tre giorni e mezzo.

Giovedì 13 – Venerdì 14 giugno 2002
SAN FRANCISCO (km. 58 / 8431)
If you're going to San Francisco
Be sure to wear some flowers in your hair
If you're going to San Francisco
You're gonna meet some gentle people there

“Se stai andando a San Francisco, ricordati di mettere qualche fiore nei capelli, se stai andando a San Francisco, là incontrerai tante persone gentili”. Con questi versi, magari un po’ utopistici e ingenui, nel 1965 Scott McKenzie lanciava un manifesto delle nuove tendenze della musica: in questa città per la prima volta le radio avevano deciso di rivoluzionare le loro stesse norme diffondendo, anziché la continua rotazione di qualche decina di hits dei soliti cantanti (perlopiù replicanti di Elvis Presley, Pat Boone, Frank Sinatra, Perry Como o Dean Martin) le proposte di chiunque avesse qualcosa di nuovo da offrire in campo musicale. Ecco così sorgere dal nulla gruppi che avrebbero fatto epoca: i Jefferson Airplane di Marty Balin, Jorma Kaukonen e Grace Slick, i Buffalo Springfield di Stephen Stills, i Grateful Dead di Jerry Garcia, i Quicksilver Messenger Service di John Cipollina, gli Holding Company di Janis Joplin. Nasceva il concetto di “Sound of the City” e a “Frisco” cominciarono a riversarsi musicisti in cerca di affermazione da ogni parte del mondo anglosassone.
Il fenomeno non era poi che una costola di quanto da una decina d’anni stava accadendo in campo letterario: piccoli editori e librerie locali erano diventati un punto di riferimento incoraggiando i nuovi talenti, dando voce di fatto al grido di libertà e ribellione della beat generation, rappresentata dai vari Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e Jack Kerouac.
Libertà, ribellione, cultura alternativa, musica: San Francisco e la California, miraggio degli studenti della mia generazione. Un po’ in ritardo, ma eccomi! Sono arrivato!
Dopo esserci muniti della “Bay City Guide”, una pubblicazione mensile ricca di notizie distribuita gratuitamente in tutti gli hotels, decidiamo per una prima presa di contatto della città girandola un po’ in macchina: come ho detto, Enzo ha un invidiabile senso dell’orientamento e in un paio d’ore ci facciamo un quadro esauriente della circolazione, dei sensi unici, della situazione dei parcheggi e dell’ubicazione dei vari punti d’interesse. Il primo aspetto che ci balza agli occhi è l’assoluta corrispondenza dell’impianto urbanistico con le scene viste in mille films e serials televisivi: un reticolato di vie a saliscendi dalla pendenza talvolta vertiginosa che a ogni dosso o svolta offrono sempre nuovi scorci sulla skyline cittadina o verso la magnifica baia. Ci si aspetta quasi di veder sbucare da un incrocio l’auto di Michael Douglas e Karl Malden all’inseguimento del criminale di turno in un telefilm di “Per le strade di San Francisco”!
Visto che il nostro hotel è ubicato sulla Lombard Street, compiamo subito uno dei rituali obbligati della città. Un tratto di questa via denotava una pendenza record vicina al 40%, per cui fu messo in atto un espediente che evitasse rischi alla circolazione delle auto: vi furono cioè tracciati dieci stretti tornanti acciottollati con mattonelle rosse e contornati da aiuole fiorite, sui quali la circolazione è ammessa solo in discesa. Ci uniamo quindi anche noi al perenne corteo che, in un susseguirsi di riprese foto e video, scende giù dalla “crookedest street in the world” (la strada più tortuosa del mondo), affiancata da villette vittoriane una più bella dell’altra.
Un altro aspetto della città è quello multietnico: a parte le comunità asiatiche (parlerò tra poco della Chinatown), la colonia più folta è quella italiana, già lo si nota dalle insegne di numerosi esercizi. Uno dei punti focali è ad esempio Ghirardelli Square, lussuoso centro commerciale sviluppatosi intorno alla fabbrica del miglior cioccolato d’America, a suo tempo impiantata dall’immigrato Domenico Ghirardelli.
Per parlare di tutte le attrattive di San Francisco ci vorrebbe un quinto capitolo di questo resoconto; ma rischierei di essere stucchevole e non voglio sostituirmi alla già abbondante manualistica reperibile nelle librerie. Fisserò quindi gli spunti di interesse che ritengo davvero prevalenti; in altre parole, sono le cose che noi abbiamo avuto il tempo di vedere. Per il resto, come Alcatraz, Mission District, Cathedral Hill, Coit Tower e i numerosi musei non posso che rinviare a quanto è descritto nelle guide.
LA BAIA – Lo scenario in cui è inserita “Frisco” va annoverato tra i più affascinanti in cui un viaggiatore possa immergersi. Dopo avere visto quattro anni fa la baia di Sydney, da molti definita la più bella del mondo, posso solo dire che è una bella gara e che preferisco rimanere nell’imbarazzo della scelta. Sono contento di averle viste tutte e due e mi basta.
FISHERMAN’S WHARF – È l’area dell’originario porto peschereccio della città, nell’ambito del quale finisce per incentrarsi buona parte della permanenza di ogni turista. Punto di grande affluenza è la sfilata di ristoranti allineati sul waterfront, che hanno tutti, all’esterno della porta d’ingresso, un bancone nel quale sono ininterottamente in cottura pentoloni di aragoste, granchi, astici, gamberi e quant’altro per la preparazione dei già citati clam chowders e di altrettanto appetitosi spuntini a base di pesci, crostacei e frutti di mare. I nomi che spiccano sulle insegne, quali Sabella’s, Cioppino’s, Pompei’s Grotto, Café Pescatore, Salina, Nonna Rose, Alioto’s sono quanto mai eloquenti: sembra davvero che a San Francisco sia difficile mangiar male!
Punto focale di Fisherman’s Wharf è il Pier 39, uno dei vecchi moli riconvertito in spazio di aggregazione, con bancarelle, bar, ristoranti e un centinaio di negozi distribuiti lungo un fronte di 300 metri su due livelli collegati da scalette, il tutto riutilizzando il legname di navi mandate in disarmo. Uno spettacolo che richiama una grande folla è costituito da una colonia di centinaia di otarie che, in un incessante abbaiare, affollano alcune pedane galleggianti ancorate nello specchio d’acqua antistante: tutto il giorno sdraiate al sole, ogni tanto un bagnetto, il mangiare non è certo un problema, lontano dai pericoli del mare aperto, e dove lo trovano un habitat migliore di questo?
CHINATOWN – Vera e propria città nella città, è la più numerosa comunità cinese al di fuori dell’Asia. Una grossa porta verde ornata da draghi all’angolo tra la Grant e la Bush Avenue costituisce l’entrata “classica” di un agglomerato umano e commerciale che, nonostante l’inevitabile impronta turistica, merita comunque di essere esplorato alla ricerca di stranezze che non finiscono mai: banchi di frutta e spezie mai viste, vasche di enormi rospi (pare siano una prelibatezza) che vengono uccisi con una mazzata davanti al cliente, cibarie che mi limito a definire “bizzarre” senza entrare in particolari, giochi tra i più curiosi, occhiali da vista venduti a due dollari e mille altre cose. È d’obbligo almeno un pasto cinese, ma consiglio di lasciar perdere i grossi ristoranti con le insegne variopinte e i menu multilingui; molto meglio indirizzarsi sui localini, magari poco appariscenti, affollati da cinesi stessi o da impiegati in pausa pranzo. Noi abbiamo scelto (e consigliamo vivamente) la House of Nanking, 919 Kearny Street: bisogna fare un po’ di coda all’esterno prima di entrare in un bugigattolo che contiene due lunghi tavoli con non più di una ventina di posti allo stretto davanti al bancone, un’ambientazione che ricorda le tradizionali friggitorie genovesi. Mister Fang, “owner & chef”, si occuperà di voi chiedendovi se volete lasciar fare a lui: rispondetegli di sì e di lì a poco porterà a ciascuno un piatto differente, mangerete benissimo, abbondante, veramente cucina cinese e spenderete quattro soldi.
CABLE CAR – Uno dei più famosi simboli di San Francisco è il servizio di trasporto con i caratteristici tram aperti dai colori vivaci. Raccomando di effettuare almeno il tragitto ($ 2 il prezzo della corsa) dal capolinea di Jefferson Street, nelle vicinanze di Ghirardelli Square, a quello di Powell Street, possibilmente “appesi” sul predellino esterno. Per completare l’esperienza, è anche interessante la visita del Cable Car Barn and Museum, dove si può apprezzare il funzionamento degli argani sui quali ruota il cavo d’acciaio che trascina i tram delle tre linee oggi esistenti, meccanismo praticamente invariato da quanto nel 1873 fu istituito il servizio.
UNION SQUARE E MARKET STREET – Giunti al capolinea di Powell Street, potrà capitarvi di dare una mano al manovratore che fa ruotare di 180° il tram su una piattaforma girevole, dopodiché sarà piacevole una passeggiata a Union Square e almeno per un tratto sulla lunghissima Market Street; questa zona costellata di centri commerciali, negozi di grandi firme, teatri, alberghi e ristoranti di classe, è il limite convenzionale tra l’aristocratica parte nord della città e quella sud più popolare. È quindi spiegabile che ci si imbatta in una mescolanza di razze variegata come in pochi altri luoghi al mondo. Un punto particolarmente vivace è una sfilata di tavolini ai quali si sfidano senza interruzione giocatori di scacchi: mi soffermo una ventina di minuti con Enzo, che è un ottimo scacchista, e possiamo apprezzare mosse veramente da manuale.
A breve distanza raggiungiamo la City Hall, il municipio cittadino del 1915, che si presenta con un ampio fronte a colonnato sormontato da una cupola classicheggiante alta 92 metri, la più alta d’America. Tanto rigorosa è la sorveglianza quanto cortesi sono i policeman che introducono i visitatori all’interno del complesso: facciamo un breve giro nei grandiosi saloni consentiti alla visita e concludiamo con una tappa al bar interno per un espresso davvero degno di lode.
LIBRERIE – Una sopra tutte: la City Lights al 261 di Columbus Avenue, autentico pezzo della storia culturale non solo della città ma dell’America e del mondo. In piedi proprio sopra questo pavimento di legno, nel 1957 Allen Ginsberg declamava “Howl”, angosciante urlo contro il perbenismo ipocrita della borghesia americana dell’epoca. Aggirandosi tra gli scaffali polverosi e le scale a chiocciola cigolanti, eccoci percorrere l’ennesimo pellegrinaggio, questa volta letterario, sulle tracce dei grandi scrittori della beat generation, ancora presenti sotto forma di libri dai dorsi ingialliti, citazioni, fotografie sgualcite e autografi affissi sulle pareti.
Meno storica ma straordinariamente fornita è la Barnes & Noble al 2550 di Taylor Street, che è anche Internet Café. Diamo un’occhiata ma preferiamo tornarci con calma nella mattinata di dopodomani per gli ultimi acquisti prima della partenza: a giudicare dalle occasioni esposte presso l’ingresso so già che mi costerà cara.
GOLDEN GATE – Ultimo ma non ultimo, ho lasciato in fondo quello che è di gran lunga il simbolo più universalmente noto di San Francisco. Il “ponte rosso”, ridipinto in continuazione da infaticabili squadre di imbianchini, offre straordinarie prospettive dal basso, dall’alto, da sopra, dai quartieri collinari di “Frisco” e dall’altura sulla riva opposta: tutte meritano di essere viste. Su una lunghezza di circa 2700 metri unisce le due sponde della baia nel punto in cui esse sembrano quasi congiungersi naturalmente; al mattino la magia dello scenario è arricchita dalla nebbiolina che si posa sul mare, con i piloni che ne emergono dando la sensazione che siano sospesi nell’aria. Il ponte è a pedaggio ($ 3 per auto), che si paga solo entrando in città da nord, ma talvolta vengono favorite le auto con quattro passeggeri; il caso vuole che il casellante sia di origine italiana, così a noi capita di passare gratis!
Proprio sotto il Golden Gate, merita di essere visitato Fort Point, costruito nel 1861 come opera difensiva contro eventuali attacchi via mare. In realtà nessuno dei seicento soldati del presidio fu mai allertato né un solo colpo sparato dai 126 cannoni. Oggi è un “historic site” molto ben conservato e interessantissimo alla visita, ma la sensazione è quella di una delle mille opere inutili costruite dall’uomo in vista di guerre a dir poco improbabili.
Ma per appassionati del cinema quali noi quattro siamo (non si era capito?) il luogo è significativo per un altro motivo: infatti non tardiamo a individuare il punto dell’antistante scogliera dal quale, nel film di Hitchcock “Vertigo” (in Italia “La donna che visse due volte”), James Stewart si tuffava nelle acque gelide per sventare il tentativo di suicidio di Kim Novak.

Sabato 15 giugno 2002
SAN FRANCISCO – SONOMA VALLEY – NAPA VALLEY – SAN FRANCISCO (km. 250 / 8681)
La giornata è dedicata a un’escursione “fuori porta” a nord di San Francisco. Superato di pochi chilometri il Golden Gate lungo la Hwy 101, è meritevole di una sosta Sausalito (qualche non giovanissimo ricorderà la “Samba de Sausalito” di Carlos Santana). Si tratta di un grazioso villaggio di pescatori affacciato sulla baia in posizione incantevole ai piedi di una collina sulla quale sorgono bellissime villette (suppongo non a buon mercato…) immerse nel verde. Una caratteristica saliente del borgo marinaro è data dalle case galleggianti ormeggiate davanti ai moli. Molto piacevole è una passeggiata sul lungomare, in una sfilata di locali, negozi di grandi firme e ateliers di artisti, che fanno intuire quanto elevato sia lo standard turistico della cittadina. Non manca la presenza di un paio di Ferrari, ma anche di una Fiat Seicento, primo modello con portiere ad apertura “non antivento”, colore arancione, scoperchiata e sormontata da tendalino: in America proprio non ce l’aspettavamo!
La nostra meta consiste nei distretti vinicoli della Sonoma Valley e Napa Valley, luogo di produzione di vini che hanno ormai raggiunto lo standard di quelli italiani e francesi. Del resto i vitigni sono i ben noti importati dall’Europa, quali Chardonnay, Riesling, Merlot, Cabernet o Pinot: si aggiunga il clima ideale e l’abilità imprenditoriale degli Americani e ci si spiega l’ottima qualità del prodotto.
Lasciata la Hwy, ci si imbatte in indicazioni stradali non sempre chiare e bisogna porre una certa attenzione ai frequenti bivi e incroci tra le strade 37, 121, 116, 12 e 29. Pur con qualche giro vizioso, ci districhiamo comunque e intorno a mezzogiorno raggiungiamo Sonoma: qui nacque a metà Ottocento ad opera di un nobile ungherese la prima azienda vinicola, ma già i francescani della Missione nel 1825 avevano dato inizio alla produzione del “vino da messa” (così lo chiamavano…).
Il primo luogo di visita è proprio la Missione, molto ben conservata e ricca di oggetti sacri e begli arredi in legno massiccio dell’epoca spagnola. Uno spuntino in una caffetteria, quattro passi nel centro tra giardini e case basse dalle tinte vivaci ed eccoci al Visitors’ Center a raccogliere documentazione. A parte la necessità di prenotare in anticipo, non riteniamo il caso di visitare i vigneti, dato che nella nostra vita di italiani qualcuno lo avremo pur visto. L’impiegata ci dà una mappa della regione sulla quale contrassegna le aziende che offrono degustazioni gratuite, per cui impostiamo un itinerario in quel senso.
Vi dico subito che, se pensate a qualcosa di simile alle “strade del vino” di Veneto, Trentino, Piemonte, Emilia o Toscana che sono un fiore all’occhiello dell’ospitalità italiana, vi sbagliate di grosso; qui le aziende vinicole sono delle grosse installazioni industriali precedute da un salone di accoglienza nel quale sono esposte le rispettive produzioni. Facciamo sosta in tre di quelle indicateci ma i tanto decantati “free tastings” toglieteveli subito dalla testa: il “tasting” è possibile, ma si paga profumatamente. A meno che per l’americano medio otto/quindici dollari per un calice da 1/8 di litro sia l’equivalente di gratuito.
La stessa situazione della Sonoma Valley è riscontrabile nella Napa Valley, per cui decidiamo di metterci una bella croce sopra; non è che siamo “i soliti italiani”, ma penso proprio che aziende di portata mondiale non andrebbero in rovina per qualche assaggino!
Nella giornata, di soldini finiamo comunque per spenderne parecchi, anche se sono assai ben spesi: segnalato nelle guide, nelle pubblicità e in cartelli lungo la strada n. 29, sorge il “Napa Premium Outlet”, talmente esteso che viene fornita una planimetria per orientarsi (informazioni al tel. 707-2269876). Lo consiglio caldamente a tutti: vi effettuano vendita diretta marchi quali Levi’s, Timberland, Calvin Klein, Tommy Hilfinger, Esprit, Dockers (per dirne solo alcuni) a prezzi di assoluta convenienza. A titolo di esempio, riferisco solo di avere acquistato le Timberland mod. “Low Rider” per $ 29.99 (in Italia non meno di € 140).
Rientriamo a San Francisco giusto in tempo per ammirare un magnifico tramonto dalla collina sovrastante l’estremità nord del Golden Gate. La luce bassa sembra caricare ancora di più il rosso del ponte per offrirci uno scenario degno della nostra ultima sera in terra d’America.

Domenica 16 giugno 2002
SAN FRANCISCO – AEROPORTO (km. 20 / 8701)
Disponiamo giusto della mattinata per gli ultimi acquisti. Come consuetudine, preferiamo renderci liberi l’uno dagli altri e riunirci alle tredici all’Hotel per caricare i bagagli in macchina e puntare sull’aeroporto.
Neanche se ci fossimo dati appuntamento, ci ritroviamo tutti e quattro intorno alle 11 alla libreria Barnes & Noble. Se amate i libri di qualità, ve la consiglio e sconsiglio al tempo stesso: uscirne a mani vuote è pressoché impossibile, anzi, vuoto potrebbe rimanervi il portafoglio. Ma ne vale la pena, non fosse altro che per il vasto settore delle offerte speciali al piano terra; avendo già valigie di mole imbarazzante, mi astengo dal visitare gli altri reparti e “mi limito” a un libro di splendide foto in bianco e nero di paesaggi americani di Ansel Adams, una storia del cinema western e un volume fotografico di immagini inedite dei Beatles, che valgono almeno tre volte i dieci dollari ciascuno che mi costano.
E così i diciotto chili di bagaglio portati dall’Italia sono diventati 39. Meno male che al check-in dell’aeroporto chiudono un occhio: evidentemente sanno quanto sia difficile resistere alle lusinghe dell’America!

23 commenti in “Stati Uniti: il mito dell’Ovest – Parte IV
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    Claudia
    07/04/2005 10:10

    Innanzitutto faccio anch'io i complimenti per la completezza e la ricchezza di informazioni di questo diario di viaggio... che ho deciso di utilizzare come "base" e come guida per organizzare le mie vacanze di quest'anno... magari eliminando qualche tappa per adattare il percorso ai 15/18 giorni che avremo a disposizione! Purtroppo le ferie sono solo ad agosto: probabilmente saremo in tre e l'idea era quella di prenotare solo il volo a/r, l'auto, il primo e l'ultimo pernottamento ed eventualmente quello nel Grand Canyon. E' fattibile o c'è il rischio, essendo in piena alta stagione, di passare le giornate in cerca di una camera libera??

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    Marzio
    31/10/2004 15:45

    OK, ragazzi, questo sì che si chiama viaggiare!! Che bella organizzazione, che bel racconto, che belle foto, CHE INVIDIAAAAA!!!

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    Leandro
    30/10/2004 16:13

    Ciao Genny, pur non avendone esperienza diretta, credo che in diversi luoghi potrai trovare freddo e neve. In questa IV parte, ad esempio, ho parlato di Yosemite con il Tioga Pass che resta chiuso diversi mesi in inverno. Ma anche diversi parchi descritti nella I, II e III parte si trovano sui 2000 metri e oltre, vedi tutto l'orlo del Grand Canyon, il Bryce, Yellowstone. Personalmente, coglierei però l'aspetto positivo: certi scenari, con il rosso delle rocce e il bianco della neve, devono essere favolosi! Indumenti caldi, informarsi di giorno in giorno sul posto sulla praticabilità delle strade, e via! Che invidia!

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    genny59
    30/10/2004 12:58

    Grande diario di viaggio, mi piacerebbe farlo uguale, purtroppo potrò partire solo nel mese di febbraio. Secondo te in alcuni posti in cui sei stato farà troppo freddo? Grazie e complimenti.

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    MARCO&GIOVI
    25/10/2004 12:33

    .... USA ON THE ROAD CHE MITO!! SIAMO APPENA TORNATI DAL NS VIAGGIO DI NOZZE DA S.FRANCISCO A SANTA FE' 3100 MILES !!!

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    Bryce
    11/08/2004 20:55

    Ottimo e abbondante! Si vede caro Leandro che sei ferratissimo in materia. Esattamente un anno fa, mia sorella ed io, tipo Thelma & Louise, abbiamo fatto un viaggio simile al tuo. Diciamo che fra le mille cose concordo sulla Napa Valley e i suoi vignaioli, direi che è chiaramente un PACCO!!!L'unica cosa carina era il ranch di Francis Ford Coppola con tanto di mini-museo dedicato ai suoi film (i tre Oscar per il Padrino in vetrina danno un certo brivido). Invece per chi fosse a San Francisco a piedi consiglio di afittare una bici e atraversare il Golden Gate fino a Sausalito (di lì è d'obbligo il traghetto per il ritorno perché sarete già a pezzi!!!). E poi spezzo una lancia a favore di Las Vegas due giorni di puro kitsch sono veramente esilaranti. E, dato che io adoro il caldo, vi assicuro che i 40 gradi a secco di Vegas fanno passare anche il minimo dolorino/cervicale/reumatismo etc. Bye

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    Leandro
    08/07/2004 14:04

    Caro Lux, lo sai meglio di me, gli States sono immensi e in quattro settimane, pur avendo visto parecchie cose, qualcuna sfugge per forza. E' vero, la missione di San Juan Bautista è poco distante da Salinas, ma in quella città eravamo talmente "presi" dal mito di Steinbeck che ci è sfuggita... E poi, quando si arriva agli ultimi giorni di un viaggio di quasi un mese il livello di attenzione tende a calare. Magari la prossima volta... Un cordiale saluto!

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    Lux
    08/07/2004 12:54

    Ciao Leandro, ho letto con piacere il tuo dettagliatissimo diario. Lo sorso anno io ho fatto il mio viaggio di nozze coprendo molte delle tappe da te toccate ed è strabiliante notare quante cose in comune ci siano state tra i due viaggi (addirittura qualche hotel e qualche inquadratura). Ho notato che però in vicinanza di Salinas hai saltato una tappa imperdibile per un appassionato di bei film quale tu dimostri di essere: la missione di San Juan Bautista (nell'omonima cittadina) dove Hitchcock ha girato le scene principali del film "Vertigo". Sarà per la prossima volta ... io ho fatto già 6 viaggi negli States e anche toccando gli stessi posti si vedono sempre cose nuove.

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    Lux
    08/07/2004 12:54

    Ciao Leandro, ho letto con piacere il tuo dettagliatissimo diario. Lo sorso anno io ho fatto il mio viaggio di nozze coprendo molte delle tappe da te toccate ed è strabiliante notare quante cose in comune ci siano state tra i due viaggi (addirittura qualche hotel e qualche inquadratura). Ho notato che però in vicinanza di Salinas hai saltato una tappa imperdibile per un appassionato di bei film quale tu dimostri di essere: la missione di San Juan Bautista (nell'omonima cittadina) dove Hitchcock ha girato le scene principali del film "Vertigo". Sarà per la prossima volta ... io ho fatto già 6 viaggi negli States e anche toccando gli stessi posti si vedono sempre cose nuove.

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    Leandro
    07/05/2004 17:49

    Credo che, a livello di affollamento, primavera e autunno siano le stagioni migliori. Essendo in due soli potrete permettervi di cercare alloggio anche... 10 minuti prima di andare a dormire! Esagero, naturalmente, ma non troppo... Quanto al clima, rispetto a noi (maggio/giugno) avrete giornate un po' più corte ma non vedo altri potenziali problemi al di là di temperature un po' più basse (ma in Arizona, Utah e Death Valley... meno male!) Forse a Yellowstone e Yosemite ci vorrà una maglia in più: beh, un po' di posto in valigia ci sarà! Quanto sopra, sempre che le stagioni siano "normali", poi le bizzarrie climatiche sono sempre in agguato... Tienici pure informati! Un caro saluto!

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    sally
    07/05/2004 13:53

    Ciao Leandro !! complimenti per gli articoli!!!! devo rileggermeli con più calma ma già ti tempesto di domande... siamo in due e abbiamo intenzione di fare un giro simile nell'autunno 2004... cosa ne dici?? pensi che a livello di clima sia troppo tardi??

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    Leandro
    26/04/2004 12:10

    Concordo con Daniela: Las Vegas non può lasciare indifferenti! Nella sua assurdità e unicità, non può non affascinare. Sul fatto di spendere poco, sono perfettamente d'accordo: mangiando agli enormi buffet degli hotel e cogliendo le mille promozioni per i pernottamenti si fanno veri affari. I gestori fanno offerte straordinarie contando che poi i clienti spendano ai casino, però basta stare alla larga dai tavoli da gioco...

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    Daniela
    26/04/2004 10:45

    Sono stata in California e Nevada (Las Vegas/Grand Canyon) a Gennaio 2004 e a oggi ogni mattina mi alzo pensando al mio sogno realizzato. L'America mi e' rimasta nel cuore e leggendo il vostro racconto ho rivissuto il mio. Spezzo una lancia in favore di Las Vegas, dove ho vissuto 4 giorni fantastici ed è la città (paradossalmente) dove ho speso meno in assoluto. Per chi intende andarci consiglio VIVAMENTE di soggiornare al Caesars Palace, oltre ad essere accessibile come prezzi offre senza dubbio l'ambiente più adatto ad un italiano ed è oltre che il più grande, anche quello più visitato da chi non dorme lì. Conto di ritornare negli USA tra un anno circa, lì ho lasciato il cuore!!!

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    d
    07/04/2004 10:31

    grazie tante per le dritte!! i siti di questo tipo sono davvero utili..grazie a chi li realizza e a chi vi partecipa.

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    bettina
    05/04/2004 14:02

    Grazie per la risposta. Volevo una conferma riguardo al numero di kilometri/giorno messi da me in conto (sto preparando con cura il percorso) e l'ho avuta. Purtroppo "scalpito" un po' quando devo stare troppo ferma: ecco perchè ti ho chiesto quanti chilometri mettere effettivamente in conto. Grazie ancora per la disponibilità.

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    Leandro
    02/04/2004 14:44

    Ciao Bettina, provo a rispondere in breve alle tue domande. In pratica, leggendo tutte le quattro parti del resoconto (le hai lette?), le risposte ci sono già. Al mattino non è necessario fare levatacce, noi mediamente ci mettevamo in moto tra le 8,30 e le 9. La distanza totale coperta (in km., non in miglia) è stata di 8701 km. in 28 giorni; togliendo i 7/8 giorni di Page, Las Vegas e San Francisco in cui abbiamo usato poco la macchina, si ottiene una media di circa 400 km al giorno: non sono faticosi, dato l'ottimo stato delle strade, e si possono coprire in quattro ore. Ovviamente parlo di media, visto che le distanze tra i vari luoghi di visita fanno sì che un giorno se ne possano magari percorrere 200 e un altro 600. Se prepari il viaggio con gli atlanti stradali di cui parlo nella prima parte, puoi già predisporre (più o meno) la lunghezza delle tappe. Naturalmente dipende anche da quanti giorni hai a disposizione e quante cose vuoi vedere. Rimango comunque a disposizione. Un caro saluto!

  17. Avatar commento
    bettina
    02/04/2004 14:14

    Bellissimo e dettagliatissimo questo diario. Sto progettando anch'io un viaggio simile e il tuo racconto (oltre a farmi già sentire negli States)è veramente ricco e dettagliato; ottimo da prendere come spunto. Ho un paio di domandine (diciamo) pratiche: a che ora vi svegliavate al mattino e vi mettevate in "marcia"? Quando avete progettato il viaggio quante miglia avevate messo in conto di fare al giorno? Quante miglia suggerisci di fare per non patirle troppo?

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    Alessandra
    08/03/2004 00:23

    Vorrei farti i complimenti davvero più sentiti!!! Ho letto tutto d'un fiato le quattro parti del tuo viaggio e devo dire che mi è sembrato di leggere un romanzo avvincente! Oltre che far venire voglia di partire subito, mi è sembrato davvero di essere insieme a voi "on the road"!!! Ciao da Alessandra!

  19. Avatar commento
    pippo
    14/12/2002 09:28

    prova per vedere come va!

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    Emirack
    14/12/2002 09:28

    Quanto ha scritto è un sogno ad occhi aperti. Complimenti per la grande chiarezza espositiva del viaggio. Ho qualche domanda da rivolgerLe. Io, la mia famiglia, unitamente ad un altra per un totale di 8 persone abbiamo intenzione nel prossimo mese di Agosto di intraprendere un viaggio di 15 giorni in alcuni posti da Lei visitati in questo viaggio. Innanzitutto alcuni di noi soffrono il caldo; quanti gradi possiamo incontrare a San Francisco, Monument Valley e in alcuni parchi (Yellowstone-Sequoia) Negli States sono disponibili per il noleggio pulmini per 8 persone ? Grazie per le risposte che gentilmente Vorrà accordarmi. La saluto cordialmente.

  21. Avatar commento
    roby-
    14/12/2002 09:28

    Un articolo stupendo... estremamente utile!!! Per gufetta: anch'io sarò negli States ad agosto... si sa mai che ci si incontri!

  22. Avatar commento
    Leandro
    14/12/2002 09:28

    Mi fa piacere di esserti stato utile e ti auguro un viaggio soddisfacente quanto il nostro! E' vero, sarà dura aspettare un anno... Riguardo le guide, alla voce "progettazione del viaggio" della prima parte di questo resoconto (sì, c'erano tante cose da dire che ho dovuto suddividerlo in quattro parti...) ho dato qualche indicazione sulle guide utilizzate. A quelle, aggiungerei anche la sempre eccellente Lonely Planet. Inoltre, dappertutto, nei Visitor Center dei Parchi, negli Uffici Turistici di città grandi e piccole, ma anche nei motel, nei negozi, nei centri commerciali e nei ristoranti sono disponibili grandi quantità di pubblicazioni che ti daranno informazioni sulle attrattive più decantate ma anche su quelle meno note. Rimango sempre a disposizione e ti auguro un ottimo viaggio negli States!!!

  23. Avatar commento
    Gufetta
    14/12/2002 09:28

    Ho letto con vero entusiasmo il suo racconto e sarà dura trascorrere un anno in attesa di fare anche io il tanto sognato viaggio negli USA (in programma nell'Agosto 2004). Sto cercando di organizzare già da adesso e il suo racconto è stato molto utile e particolarmente dettagliato (immagino che abbia tenuto un diario di viaggio). La ringrazio per avermi fatto iniziare a sognare!!! Ha qualche guida in particolare che Lei suggerisce di non farsi mancare durante il viaggio?

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