Sibiriak, taiga a oltranza: lungo la Transiberiana da Mosca a Pechino

Un treno che da sempre fa parte del mito, ma anche un mondo a parte e un’esperienza di vita

PREMESSA DELLO STAFF
Non è un vero e proprio diario di viaggio, ma più che altro uno spaccato di vita quotidiana proveniente da un mondo che ci è lontanissimo, non solo nello spazio ma anche nel tempo. Pubblichiamo la testimonianza di Paolo Cagnan con vero piacere, come di tanto in tanto facciamo con contenuti davvero “speciali”, a dimostrazione che Ci Sono Stato vuole essere un sito di viaggi a tutto tondo, anche se qui non si favoleggia di spiagge tropicali o metropoli sfavillanti né si fanno descrizioni di luoghi raccomandati in cui dormire o mangiare.
Ho fatto un brutto sogno. Mostri deformi, da film dell’orrore. Forse la colpa è dello spiraglio. Non soffro di claustrofobia; io e il mio “compare” Nicolaj avremmo potuto tranquillamente chiudere lo scompartimento con la sicura, e morta lì. È stato lui, da veterano della Transib, a mostrarmi l’ingegnosa alternativa: una specie di catenella che blocca la porta, lasciando però uno spiraglio di qualche centimetro. Socchiusa con la sicura, insomma. Impossibile vedere dentro, dall’esterno, ma possibilissimo spruzzarvi spray soporifero. Ecco perché ho sognato di tutto, la scorsa notte.
Del resto, il posto è quello giusto. Sverdlosk-45, Chelyabinsk-65, Krasnoyarsk-26, Tomsk-7: le città fantasma della grandeur nucleare sovietica, luoghi dove i bambini nascevano con due teste, le madri piangevano chiedendosi il perché di una simile disgrazia e i padri scuotevano la testa rassegnati, guardando in direzione del reattore che dava loro da mangiare.

Treno 26, carrozza 13, letto 19. Mi sono svegliato presto, saranno state le sette o giù di lì. Angosciato dai mostri deformi, rinfrancato dalla scoperta che li ho solo sognati, riesco a riaddormentarmi per un po’, prima del soprassalto.
È pop melodico russo sparato a tutto volume dalla filodiffusione, o meglio dal gigantesco altoparlante nascosto dalle tendine, appena sopra la finestra. Sono le otto e un quarto e la giornata inizia bestemmiando. Mi aggrappo alla manopola, che è al massimo. Colpa mia: ieri sera devo averla girata dalla parte sbagliata, a impianto spento. Nicolaj era già sveglio e non si lamenta. Se ne sta sdraiato sul fianco destro, ogni tanto apre un occhietto e mi scruta. Sono stato fortunato: è la seconda volta che condivido una carrozza da quattro con una sola persona. Nessuno salirà da qui a Novosibirsk: ne sono quasi certo.
È un personaggio, Nicolaj. Classe 1936, fa il fisarmonicista errante. Con lui la lingua, più che ostacolo, diventa sfida e divertimento. Luda, la mia prima compagna di viaggio, sapeva l’inglese. Lui no, parla solo russo. Per capirsi bisogna ricorrere al linguaggio universale dei segni. Che poi così universale non è. Sfregare pollice e indice indica i soldi, ma mica dovunque. Scrolli la testa in segno d’assenso, e in alcuni paesi significa “no”. Al contrario, in India sembra che dicano “no” e invece quello stesso movimento significa “va bene”. E così via.
Molti non comprendono il gesticolare italiano. E allora, se non ci si intende né a parole né a gesti, che si fa? S’improvvisa. Parlando ognuno nella propria lingua, e chissà che non ci scappi qualche possibilità d’intesa, una scintilla d’intuizione. Gesti & suoni: l’alchimia alle volte funziona. Io e Nicolaj ci intendiamo così.
Scopro, dopo ore di interminabili quiz lessicali, che è vedovo e ha studiato al conservatorio. Che suonare la fisarmonica è tutta la sua vita, da sempre. Che ha due figlie e le pezze al culo. Viene da Vyborg, una città sul Mar Baltico. Veste una logora giacca di pelle marrone sopra una camicia beige e un paio di pantaloni grigi con la piega. Il suo tesoro, lo strumento, è racchiuso in una valigia rigida.
Durante il tragitto, forse a Vekovka, ha comperato un inutile set di bicchieri di vetro che a ogni fermata rischiano di andare in pezzi perché non si è neppure premurato d’imballarli.
Ma il clou è il suo orologio da polso, una patacca di non so quale secolo che vorrebbe scambiare con il mio Swatch, anche se non funziona.
Si sta recando a Novosibirsk, come me. Per dirmi che ha due figlie mi mostra le tette, cioè le mima con le mani, davanti al petto. Per dirmi dove abita, estrae dalla valigia un set di cartoline della sua città, di quelle che si srotolano a soffietto. Le scritte sono in inglese: scopro così che Vyborg “sulla costa nord del Baltico è da sempre terra contesa tra Russia e Finlandia, con laghi, foreste, rocce e un centro medievale”. Vorrei sfoderare un set di cartoline e parlargli dell’Alto Adige, altra terra contesa ricca di boschi, laghi e centri medievali. Ma non ho foto con me.

Bisogna scegliere gli argomenti di cui gesticolare. E prendersela comoda, perché fare conversazione non è l’unica difficoltà. C’è la provodnitsa che impiega quasi un quarto d’ora prima di riuscire a farmi capire che devo sganciare cinquanta rubli per il set di lenzuola, che sul primo treno mi era stato fornito gratuitamente. Altri dieci minuti per impossessarsi del mio biglietto, che mi sarà restituito - spero - a destinazione. Lei, la hostess, è giovane e carina, sui venticinque anni, capelli castani a caschetto, due occhioni e un sorriso cordiale. Conosce poche parole d’inglese, e le usa male. Dice twenty-nine al posto di nineteen e così fatico a trovare il mio posto sul treno per un bel pezzo.
A differenza dell’Ural, il Sibiriak non è dotato di brochure con gli orari e i luoghi delle fermate: un vero peccato. In prima classe gli scompartimenti hanno solo due letti anziché quattro, mentre la differenza di prezzo con la seconda farebbe intendere ben altri lussi accessori. La terza classe, quella delle famigerate carrozze platskartny, è una specie di carro bestiame: troppo persino per i più ostinati budget travellers, con i suoi scompartimenti senza porte e i letti a castello anche sul corridoio. Un cambio di lenzuola ogni tre giorni, e del tanfo neanche parlarne.
Guardo fuori mentre Nicolaj finge d’armeggiare attorno alla sua valigia. Non so come sbarcherà il lunario, una volta arrivato a destinazione. A Novosibirsk non lo aspetta nessuno: non un direttore d’orchestra né un’orchestra. Penso sia un musicista di strada. O un inguaribile sognatore. O un vagabondo in là con gli anni. O tutte queste cose messe assieme.
Guardo fuori dal finestrino. Così come le casette basse, di legno, con il tetto di lamiera si sposano ai boschetti di conifere, i palazzoni a schiera brutti e squadrati sono il DNA delle città cresciute lungo la linea. Poi prati secchi, rigagnoli asciutti e fabbriche e ciminiere e cave e depositi di legname a interrompere la smisurata taiga. E auto abbandonate - o forse solo catorci ancora utilizzati - e motocarrozzelle che fingono di sfrecciare a lato della massicciata, sulla strada parallela al doppio binario, perché qui si può andare solo verso est o verso ovest.
Sfilano mandrie al pascolo, campi di granturco, operai con giubbotti fosforescenti che sistemano i binari, baracche con l’orto e fabbriche in rovina, con i tetti e i muri sfondati e chissà se qualcuno ci vive dentro.
Non so che ore siano, ma è il momento di un tè. Mentre preparo l’occorrente, Nicolaj tira fuori da un involto pane nero, formaggio e una specie di pâté, oltre alle zollette di zucchero. Poi, tocco magico, estrae dal suo cilindro una bottiglietta di plastica: vodka di pessima qualità. Vuole mettermela dentro il tè e mi sa tanto che non potrò dirgli di no.

Il blog dell’autore: http://transiberiando.blogspot.com

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